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La storia del pilota emiliano, raccontata in questa intervista esclusiva
23 mar 2023
È vero che con Roberts, nella prima metà degli anni ’90, usavate già la videometria?
“Avevamo uno studio con la moviola, per mandare le immagini avanti e indietro, al rallentatore. Potevamo vedere, per esempio, se la mia forcella affondava del tutto in una determinata staccata e compararla con quella di Wayne”.
In 250 hai corso nel team di Giacomo Agostini, in 500 con Roberts e con un compagno di squadra come Rainey: da loro hai assorbito tanto?
“Se eri sveglio, imparavi parecchio. Ho avuto la fortuna di lavorare con gente che ha segnato delle epoche. Alcuni team, però, li ho anche fatti tribolare. Non ero facile da gestire. Magari ero felice e poi avevo giornate storte. Se ero girato male, mi chiudevo in camera e non c’ero per nessuno”.
È vero che intonavi i pezzi d’opera per Kenny?
“A lui piaceva molto sentire cantare in italiano. Pure il vino, apprezzava. E non soltanto. Davo il mio meglio. Quando le gare andavano bene, la domenica sera, tutto il team andava a cena, una trentina di persone. A turno, a un certo punto, ognuno si alzava e diceva o faceva qualcosa. In quei momenti, ho anche intonato qualche passo d’opera”.
Hai lavorato con parecchie realtà non italiane e parlavi un buon inglese: di chi era il merito?
“Di Eddie Lawson: quando correvo in 250 per Agostini, lui era in 500 nella stessa struttura. Era un esempio per me. Mi ospitò a casa sua, a Upland, in California. Ogni tanto c’erano i suoi amici e la sua ragazza, a volte eravamo soltanto noi due. Quindi imparare la lingua fu una necessità. Deve avermi ascoltato quando chiamavo la mia famiglia, perché a un certo punto iniziò a chiamarmi ‘Ciao mama’. Era la mia formula d’esordio quando ero al telefono. Ci divertimmo un sacco, fu fantastico”.
Fra i tuoi rivali qualcuno ti ha svelato dei segreti, anche involontariamente?
“Imparai moltissimo da Toni Mang. Ricordo l’87: ero all’esordio in 250 e andavo a palla. La Yamaha sembrava fatta apposta per me. Mang aveva 37 anni, io 24. Pensavo: questo tedesco non va. Ad Anderstorp, in Svezia, sorpassavo tutti all’esterno, lui compreso. La sua era una strategia: si era risparmiato, si era lasciato superare, ma all’ultimo giro passò davanti e col cavolo che riuscii a replicare. Compresi di dover imparare da lui: non serve andare sempre al 100%, a ogni curva, a ogni staccata”.
Come vivevi la competizione?
“Non ho mai corso contro qualcuno. Forse a inizio carriera, ma poi ho capito che non era la cosa giusta. Volevo essere il più veloce, indipendentemente dagli altri. Correvo per me stesso. Altrimenti mi avrebbe creato uno stato d’animo non ideale. Magari altri piloti cercavano quella motivazione lì, ma la mia carriera nasceva da una spinta positiva: per andare bene, dovevo essere sereno. Non potevo provare odio”.
Com’era scattata la molla?
“Un giorno, da ragazzino, ero nel garage di casa e trovai delle riviste in cui si parlava di mio padre. Era stato un pilota, negli anni ’50, e c’erano delle sue foto sul podio: fino a quel momento, però, non avevo mai sentito parlare di questo aspetto della sua vita. Gli chiesi: ‘Ma sei tu questo? E come mai hai smesso?’. Mi spiegò che era la sua passione, ma poi aveva conosciuto mia madre e messo su famiglia, doveva lavorare per sostenerci, così aveva abbandonato. Ciò fece nascere in me l’idea di fare qualcosa a cui mio padre aveva dovuto rinunciare. È la motivazione che mi ha spinto sempre. Fino alla fine”.
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