L'intervista per "Storie Sprint": "Vi racconto tutto. Honda, Suzuki, Schwantz, la Elf con il forcellone anteriore, le partenze a spinta"
C’era un odore pungente, nel casco di Ron Haslam, il giorno in cui colse il miglior risultato nel Motomondiale. Pioveva, ad Assen, e sul lato interno della sua visiera era stata passata una patina di detersivo liquido per i piatti. Combinata al nastro americano che si era appiccicato fra il naso e la mentoniera, la mossa rappresentava una soluzione antiappannamento per nulla scientifica, ma nel 1985 si faceva così.
In Olanda l’allora ventinovenne si schierò in seconda fila, nelle narici un mix di aromi chimici di cui presto non si sarebbe curato più, focalizzandosi sulla gara. In griglia era fiducioso, perché nei precedenti tre anni si era affermato come un maestro delle partenze: il più efficace di tutti nel mettersi davanti e tirare il gruppo della classe regina nei primi giri, anche se poi perdeva immancabilmente terreno e veniva risucchiato. A metà anni ’80 si partiva ancora a spinta, il motore spento e la prima ingranata, tutta la forza nelle gambe, la leva della frizione da mollare al momento giusto, con l’esatta dose di gas. Pronti via, le gocce di pioggia a puntinare il cupolino. E subito una piccola sorpresa, perché a mettersi davanti fu Randy Mamola, sottraendo per una volta a Rocket Ron il ruolo di lepre. Venti giri più tardi la vittoria andò allo statunitense, mentre l’inglese raccolse l’unico argento di una carriera che conferma una delle più affascinanti dinamiche del tifo sportivo, in cui vincere non è la sola strada per farsi amare dal pubblico.
Più che per i crudi risultati, Haslam ha saputo catturare l’attenzione con il look, lo stile di guida, la dedizione e i lampi di prestazione. Chioma da rockettaro e basette che manco Elvis, portò in pista prototipi audaci negli azzardi tecnici e nel design: su tutti le Elf, finanziate dal colosso francese del petrolio e pronte a snobbare la tradizione per sposare la sperimentazione, come la forcella anteriore sostituita da soluzioni tecniche che sembravano provenire dalla NASA. Il britannico ha vestito sia i panni del pilota che quelli del collaudatore (anche della Norton-Wankel), in una parabola da oltre 100 GP decollata con la Honda e transitata pure nelle orbite Suzuki e Cagiva. Nei box dei marchi giapponesi fece i conti con compagni di marca scomodi, Freddie Spencer e Kevin Schwantz, riferimenti assoluti capaci di creare più di un grattacapo a un pilota che fra stimoli e frustrazioni è stato spesso fedele a una teoria di base: quando le cose vanno bene, basta lasciarle andare. Toccando niente. Senza cercare troppi perché.
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