Moto Guzzi V35, la progenitrice di una gamma | Polvere di Stelle

Moto Guzzi V35, la progenitrice di una gamma | Polvere di Stelle

Con questa creatura della Casa di Mandello del Lario, e non solo, si conclude la nostra carrellata sulle 350 degli anni Settanta

22.08.2023 ( Aggiornata il 22.08.2023 07:31 )

Si conclude con questa puntata la carrellata sulle 350 che nei primi anni Settanta dominarono il mercato nazionale della motocicletta. Dopo la Honda CB 400 Four Super Sport, la Moto Morini “Tre e mezzo”, la Yamaha RD 350, la Suzuki GT 380 e la Kawasaki 400 Mach II, questa volta ci occupiamo dell’ultima arrivata, la Moto Guzzi V35, progenitrice di un’intera gamma di nuovi motori della Casa lombarda.

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La Moto Guzzi V35, origine e moderna


Maggio 1976: partii per uno dei miei soliti viaggi in cerca di novità, storie interessanti, personaggi del nostro mondo. Dopo una tappa a Breganze, alla Laverda, un’altra a Verona, alla BMW, arrivai a Mandello del Lario in tempo per cenare e trovare una stanza al Grigna, l’albergo frequentato da collaudatori, tecnici e operai della Moto Guzzi. Mi unii ad alcuni di loro che avevo conosciuto sui campi di gara e, cenando, cercai di farmi confidare qualche segreto, o almeno di capire quali domande avrei potuto porre ai manager aziendali.

Non ottenni molto, se non la certezza che la versione ridotta dell’ormai classico motore bicilindrico a “V” trasversale di 90° era in via di completamento. Il giorno dopo fui ricevuto dal direttore commerciale e non resistetti a lungo prima di centrare il discorso sul “V7 piccolo”. Mi aspettavo un “no comment”, o “è ancora presto per parlarne”, invece non soltanto ricevetti soddisfacenti risposte alle domande, ma fui anche invitato a dare un’occhiata al prototipo, naturalmente senza fotografare nulla.

Così avvenne il mio primo ed esclusivo contatto con la Moto Guzzi V35: dopo averla impressa nella mente nei minimi particolari, la disegnai per il mensile motociclistico per il quale stavo lavorando in quel momento. Come disegnatore facevo letteralmente schifo, ma nella mia memoria l’immagine si era impressa talmente bene che ne uscì qualcosa di pubblicabile…

Dopo questo viaggio nel mio passato, è ora di far entrare in scena proprio la Moto Guzzi V35, la motocicletta che, come la Moto Morini “Tre e mezzo”, mantenne a galla la nostra industria nella cilindrata in quel momento più redditizia sul mercato nazionale. Entrambe seppero distinguersi per originalità tecnica, modernità e affidabilità in un panorama già dominato dai formidabili modelli pluricilindrici giapponesi a due e quattro tempi.

La V35 non era semplicemente una versione ridotta della V7, era un progetto completamente nuovo alla luce della diversa destinazione d’origine dei due motori e dei notevoli progressi tecnici maturati – grazie soprattutto alle innovazioni introdotte dalle Case giapponesi nel settore motociclistico – nei precedenti dieci anni. Il V7 era nato per equipaggiare un’utilitaria Fiat e, dopo la rottura del contratto con la Marca torinese, era finito sul mulo meccanico “tre per tre” prima di essere montato – quasi controvoglia – su un telaio motociclistico.

Il motore V35- V50 (probabilmente nacque prima nella versione di mezzo litro poi, per accedere ai vantaggi fiscali, fu allestito anche il modello 350) era destinato invece esclusivamente a equipaggiare una motocicletta dalle caratteristiche ben definite. Il progresso tecnico nella V35-V50 era evidente sia nel propulsore che nella ciclistica.

Come per la Morini “Tre e mezzo”, anche la Moto Guzzi aveva dato la preferenza alle teste tipo Heron, cioè piatte e con la camera di combustione ricavata nel cielo del pistone. La distribuzione era ad aste e bilancieri, ma con albero a camme posto alla sommità del carter, al centro del “V” dei cilindri e con aste quindi molto corte. Una particolare cura era stata dedicata alla massima riduzione degli ingombri, sia in altezza che trasversalmente (40 cm appena la larghezza totale del motore). I cilindri avevano soltanto cinque alette e quelle delle teste (ma anche i coperchi delle valvole) erano tagliate in modo da non sporgere dal piano verticale.

Il motore, inoltre, era parte integrante del telaio e la scatola del cambio faceva da supporto al forcellone a due bracci fuso in lega leggera. Il braccio di destra ospitava l’albero di trasmissione. L’impianto frenante era il fiore all’occhiello: tre dischi Brembo con funzionamento integrato e compensatore. L’avviamento era elettrico. Della V7, la nuova moto aveva mantenuto una caratteristica pressoché unica e apprezzabilissima: la possibilità di essere scomposta nelle due parti fondamentali.

Si poteva staccare l’insieme ruota anteriore, forcella, telaio, sella e ammortizzatori posteriori lasciando sul posto – sul cavalletto – il motore con tubi di scarico, marmitte, sistema di alimentazione, trasmissione completa e ruota posteriore.

La differenza di potenza fra le due cilindrate era sensibile: 33 CV per la V35 e 45 CV per la V50. La conseguenza, per la 350 era una velocità massima poco superiore ai 140 km/h, valore che la poneva su uno dei gradini più bassi nel confronto con le pluricilindriche di pari cubatura, ma l’impostazione del modello, indiscutibilmente votata a motociclisti “tranquilli”, fece sì che il mercato non la condannasse per le scarse prestazioni, sebbene il prezzo con cui fu posta in vendita, 1.849.000 Lire, fosse uno dei più alti, superando di ben 400.000 Lire la Morini 350 GT, sua concorrente diretta.

Nel 1979 la Moto Guzzi fece debuttare la V35 Imola (nella foto in basso), una sportiva decisamente appetibile per la riuscitissima linea e un po’ meno per le prestazioni, di poco superiori a quelle della versione turistica.

Vennero poi la V35-V50 Custom, con modifiche puramente estetiche, infine, la V35 NTX e la V35 TT (non “Tourist Trophy”, ma “Tutto Terreno”), Enduro stradali. La modifica più importante al motore apparve sulla Imola II del 1985 e fu la testa a quattro valvole, che si rivelò fragile e controproducente in termini prestazionali. Un fiasco, insomma.

Grazie anche a un forte ridimensionamento del prezzo rispetto a quello d’origine, la V35 rimase comunque un modello competitivo sul mercato nazionale fin quando vennero mantenute le discriminanti di ordine fiscale e normativo a vantaggio della cilindrata 350. Una volta che queste vennero eliminate, iniziò l’inarrestabile ascesa delle “maxi” fino ai livelli odierni.

La Ducati 350 Mark III D


Per concludere la carrellata sulle 350 degli anni Settanta è impossibile non citare due monocilindriche italiane della stessa cubatura che godettero di un certo favore. La Ducati 350 Mark III D, esordì nel 1971 e fu la prima moto con testata desmodromica di serie. Era una monocilindrica di impronta nettamente sportiva con un equipaggiamento ciclistico di prim’ordine e un motore da 28 CV, sufficienti, unitamente alle doti di tenuta di strada e maneggevolezza, per confrontarsi sui percorsi misti anche con concorrenti di maggiore cilindrata.

La distribuzione desmodromica, una rarità figlia delle corse di Velocità, fu un richiamo irresistibile per molti smanettoni e lo fu ancor di più dopo la vittoria a Imola della Ducati 750 bicilindrica Desmo alla 200 Miglia del 1972 con Paul Smart.

La Mark III D restò in produzione fino al 1975 con diverse modifiche estetiche: l’ultimo modello fu equipaggiato con freno anteriore a disco.

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Le creature Aermacchi


Merita un cenno anche la Aermacchi-Harley Davidson 350 che debuttò al Salone di Milano del 1969 con il modello GTS. Il motore era il celebre “mono” a cilindro orizzontale e distribuzione ad aste e bilancieri con cui la versione Ala d’Oro si copriva di gloria nelle corse internazionali.

Naturalmente, rispetto a questo era “spompato” a 25 CV e con cambio a soli quattro rapporti, ma soprattutto la voglia di piacere ai motociclisti americani aveva indotto lo stilista a disegnare una moto simil-HD Sportster, difficilmente digeribile per il pubblico italiano.

Nel 1971 alle versioni GTS si affiancò la 350 TV di antiquato disegno sportivo, (nella foto in basso) ma con motore da 29 CV, cambio a cinque rapporti e velocità massima di circa 150 km/h. Nel 1973 dai serbatoi delle moto sparì la marca Aermacchi, sostituita da “AMF-Harley Davidson” e le 350 monocilindriche quattro tempi rimasero in catalogo fino a fine 1974 con i modelli SS e SX, invariati nella meccanica ma rinnovati nel disegno. La SS tornò a ispirarsi malamente alla HD Sportster, mentre la SX era decisamente più elegante, sebbene volesse apparire una moto da Enduro.

La Aermacchi 350 – perché di Aermacchi si trattava a tutti gli effetti nonostante la proprietà americana – fu probabilmente la migliore monocilindrica di media cilindrata del suo periodo, ma non poté competere con le pluricilindriche italiane e giapponesi, condannata soprattutto dalla moda del momento e dalle eccessive vibrazioni dei “mono” ancora privi di alberi di bilanciamento.

 

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