Maurizio Vitali: "Scelsi la Garelli. C'era più poesia, ma pagai quella scelta"

"Vinsi due gare in carriera: poche se penso ai numerosi guai meccanici, ma tante se rifletto sui mezzi a disposizione e sulla mia conoscenza tecnica, non certo infnita"

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02.04.2025 09:17

Vitali: l'intervista


Nel 1984, l’avvio fu notevole: sempre in pole nei primi tre GP.

“A Misano in gara chiusi secondo, in Spagna e Germania mi ritirai. A quel punto iniziai a pensare che finire primo nelle qualifiche portava male. Due GP più tardi, in Olanda, evitai apposta di fare la pole: siglavo il primo tempo provvisorio, tornavo ai box e rientravo soltanto quando dal monitor notavo che ero sceso in seconda fila. In quel periodo ero in stato di grazia, giravo forte e mi veniva facile. Stavo ancora sfruttando il segreto rubato a Roberts e Spencer”.

Come andò in gara ad Assen?

“Ero davanti, quando vidi che la temperatura era a zero. Pensavo si fosse guastato l’indicatore, invece era alle stelle! Colpa di un tubicino del radiatore, che mi lasciò senza acqua, cottura completa. Doppia beffa: oltre a veder evaporare una possibile vittoria, dovetti mettere mano al portafogli per pagare i danni”.

Come gestivi i fondi?

“Mi compravo la moto e ci andavo a correre. La assemblavo io stesso, anche se di tecnica ne masticavo poco. Mentre gli altri giocavano con la carburazione, io non cambiavo nemmeno i getti del massimo. Dell’Orto 160, lo ricordo ancora. Feci tutta la stagione con quelli. A un certo punto mi sponsorizzò un marchio di birra, Stella Artois. L’importatore era di Bellaria come me e un giorno mi chiese di stilare un budget. Dopo averlo messo su carta, preoccupato da somme che mi sembravano troppo alte, iniziai a tagliare qua e là. Quando gli presentai la cifra, mi disse: ‘Dove vuoi andare con questi? Sono pochi!’. Mi diede di più, ma alla fine non bastavano comunque”.

Nel 1985 eri in 250 da ufficiale Garelli, compagno di squadra di Nieto.

“Lui aveva un motore più spinto del mio, veloce ma anche più cattivo e difficile. Angel era a fine carriera, all’anagrafe aveva dieci anni più di me che ne avevo 28, aveva meno motivazioni. Non si qualificava nemmeno. La domenica diceva al team di montare il suo bicilindrico sulla mia moto. In gara poi, mi ci voleva qualche giro per adattarmi all’erogazione. La Garelli era ben messa come cavalli, ma si rompeva. La ciclistica era nata già vecchia: lunga d’interasse, era bassa e con poca escursione nelle sospensioni, l’angolo del cannotto di sterzo troppo aperto. Nel guidarla, sembrava di dover spostare un camion”.

Con te la Garelli 250 venne sviluppata?

“Non grazie al mio contributo. Non fui molto utile perché non riuscivo a dare indicazioni. Faceva parte del mio modo di essere e di guidare: se non giravo abbastanza forte, ci mettevo più cattiveria. Non cercavo di capire e sistemare”.

Hai mai cambiato approccio, da questo punto di vista?

“No. Nel 1986 in Svezia ottenni il miglior piazzamento in 250, un quarto posto in condizioni miste. Lì la Garelli andava bene perché le curve sopraelevate ne valorizzavano la stabilità e c’erano pochi punti in cui serviva maneggevolezza. Poi andammo a Misano, dove pensavo di volare. Invece, nelle prove ero lento. Rientrato ai box buttai lì una proposta senza troppe basi: chiesi di allungare i rapporti, una corona con tre denti in più. Funzionò: conquistai la prima fila. Ma fu una botta di c… E comunque in gara mi ritirai dopo qualche giro per un problema tecnico. Tanto per cambiare”.

Rimpianti?

“In 250 a un certo punto emerse la possibilità di andare in Yamaha. Avevo ricevuto un’offerta da Giacomo Agostini, ma poi i giapponesi imposero un pilota del Sol Levante e sfumò tutto. Avevo anche offerte da Honda, che scartai, e Aprilia. Andai a Noale e mi presi una settimana per riflettere. Pensai: loro hanno Loris Reggiani, non è più bello se io resto alla Garelli, un altro italiano su moto italiana, e vediamo cosa succede? C’era più poesia. Per la mia carriera fu uno sbaglio. E l’ho pagato”.

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