"Cominciai da autodidatta. Pochi risultati, e addirittura mi tolsero l’unico podio nel Mondiale, eppure ero popolare: merito anche delle mie love-story"
Una delle tue gare più sofferte: Imatra 1981.
“Ci arrivai con cinque fratture nel piede sinistro. Mi ero fatto male due GP prima a Imola mentre battagliavo con Willem Zoet, olandese che in quell’appuntamento guidava la Suzuki ufficiale. Lo stavo passando all’esterno nella destra veloce che precede la Rivazza, quando lui cadde e mi falciò. Mi portarono dal dottor Claudio Costa, che mi tolse lo stivale rivelando il guaio: avevo praticamente la parte finale del piede girata verso l’alto, tirata dai tendini. Rotti tutti i metatarsi. In quel momento di fianco a me c’era Graeme Crosby, che aveva appena finito la gara sul podio ed era venuto a vedere come stavo. Mi teneva la mano come per darmi conforto, ma quando vide il piede in quelle condizioni iniziò a stritolarla così forte da farmi urlare, peggio che le fratture. Mi misero un gesso dopo aver piazzato una base rigida sotto al piede, con degli elastici che tenevano tutto nella posizione giusta. Quattro settimane dopo mi presentai in Finlandia, dove Costa mi liberò il piede e lo sistemò per restare rigido, ma con meno ingombro. Me lo infilarono in uno stivale di due taglie più grandi, tagliato dietro e poi richiuso. Il problema è che la partenza era a spinta e sentii subito un crac. Tanta fatica e parecchio dolore per niente: chiusi 11°, fuori dalla zona punti”.
Era frustrante essere spesso protagonista di belle prestazioni ma concretizzare poco?
“Puoi dirlo forte. Ricordo un’altra gara bizzarra, a Monza, sotto la pioggia e dopo qualifiche disastrose in cui grippavo in continuazione a causa di alcuni componenti non realizzati come si deve. Partito ultimo, passai una marea di piloti. Quando guardai per la prima volta la tabella con le segnalazioni al muretto box, lessi il numero 11 e pensavo di essere in quella posizione. Andai a riprendere il pilota che mi precedeva, e poi altri. Finita la gara, ero 11° e ancora fuori dai punti. Chiesi al team cosa significava quel numero 11. Era il tempo sul giro…”.
Eri sotto un incantesimo e non sei mai riuscito a romperlo.
“Salisburgo 1979, la quinta piazza in ballo fra me e Cecotto. A pochi giri dalla fine il venezuelano cadde e mi portò fuori. Ancora nel 1981, 200 Miglia di Imola, divisa in due manche: nella seconda scattai male, andai a riprendere i primi collocandomi al terzo posto. Poi i carburatori mi tradirono”.
Come te la cavavi con la messa a punto?
“All’inizio, e per diversi anni, fu una perfetta sconosciuta. Cercavo soltanto di dare il massimo, senza troppi pensieri. Regolazione della forcella, interasse, geometria dell’avantreno: niente. Poi mi sono raffinato. Nella prima metà degli Anni ’80, quando corsi con i colori Cagiva, ci capivo molto di più. Ma non bisogna credere che le modifiche venissero affrontate con atteggiamento troppo scientifico: si trattava di esperimenti. Se provavamo un cerchio anteriore da 16”, non c’era nessun intervento sul mezzo per ovviare agli effetti della novità".
La tua esperienza con il marchio di Varese durò poco.
"Mi ero separato da mia moglie e mi venne affidato nostro figlio, che aveva cinque anni. Dovevo crescerlo. Così smisi di correre. Non fu facile: quando guardavo le gare in TV mi inclinavo sul divano come avrei fatto nelle curve. Soffrivo”.
Come hai fatto a riprenderti?
“Trombando tutti i giorni…”.
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