La storia di Christian Sarron: "In equilibrio tra la vita e la morte"

La storia di Christian Sarron: "In equilibrio tra la vita e la morte"© Archivio Motosprint

L'intervista esclusiva al francese per 'Storie Sprint': "Ero certo che sarei morto in pista, prima o poi, come i miei colleghi. Sfidavo gli americani con moto inferiori"

Jeffrey Zani

30.01.2023 ( Aggiornata il 30.01.2023 15:32 )

Nell’elicottero che il 22 marzo 1985 sorvola i tetti di Johannesburg, la città più popolata del Sud Africa, c’è un uomo con quattro costole rotte, fratture a un piede e una spalla, un ginocchio malandato e una commozione celebrale.

Christian Sarron è rotolato a terra mentre tentava di ottenere la pole position al suo primo GP dopo il ritorno in 500, il primo GP da campione del Mondo uscente della 250. Kyalami è la pista sulla quale ha grippato in entrata di curva, e l’immagine finale è quella della carenatura blu della Yamaha sponsorizzata Gauloises a brandelli sul prato della via di fuga.

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La tenacia di Sarron


L’atterraggio all’ospedale, gli esami e un dottore che scuote il capo: domani non si corre. O almeno, non sarebbe consigliato. Perché il francese – 30 anni da compiere la settimana successiva – è fatto di una pasta particolare. Quella che si modella ma non si spezza, si adatta senza perdere la consistenza che la rende così, tenace e apparentemente eterna, a prova di fuoco e fiamme, bombe e batoste. Proprio come quella inflitta dalla sua YZR quando la ruota posteriore si è improvvisamente bloccata. E così, il giorno dopo, eccolo lì in griglia: barcollante ma vigile, decisamente ambizioso e quasi sfacciato.

Ma con quante possibilità di fare bene? E ancor peggio: quante di avviare il motore a spinta (come prevede la partenza delle gare in quel periodo), dopo quel bollettino medico? Nonostante tutto, scesa la bandiera a scacchi le classifiche della classe regina parleranno di un pilota arrivato sesto dietro a veterani come Eddie Lawson e Freddie Spencer, mentre cronache e memorie riconsegneranno le gesta di un gallo da combattimento che ha saputo beccare al collo le star statunitensi del Motomondiale e impensierirle davvero, anche se spesso ha tenuto la cresta bassa: da quel giorno, sono sei le stagioni di militanza in top class, altrettante pole position e una vittoria sul bagnato, dove sa dare il meglio, l’unica vittoria non americana o australiana in 500 nell’arco di 83 GP in un periodo tra fine 1982 e metà 1989.

A condizionare la carriera di Sarron, una slanciata fede nel potere della mente ma anche tanti complessi di inferiorità, moto non ufficiali, pneumatici di serie B e un grande tradimento che gli tarpa le ali, e spezza il cuore, sul più bello.

Il racconto del pilota francese


Fresco campione del Mondo, torni in 500, ma la partenza è con il botto: cosa ricordi?

“Ci sono diverse premesse da fare. Innanzitutto, prima di salire sulla mezzo litro per il primo GP della stagione 1985 non avevo fatto nemmeno un test. Mai provata la moto, a Kyalami la vedevo per la prima volta. Dal Giappone, le mie YZR erano state spedite direttamente in Sud Africa e i meccanici erano nella mia stessa situazione. Partivano da zero: il grippaggio fu una conseguenza della loro inesperienza sul mezzo. In gara, anche se ero tutto acciaccato, il problema più grande fu il calore diffuso dagli scarichi, reso estremo dal caldo sudafricano. Con tutte quelle ossa rotte non ero in grado di spostarmi sulla sella come sarebbe servito. Le gambe erano un disastro: le sentivo andare a fuoco”.

Appena due gare più tardi, la vittoria.

“Hockenheim, dove pure scattai in maniera pietosa. All’inizio la visibilità era limitata dall’acqua in pista: non si vedeva quasi niente, ma bisognava tenere aperto. Fui in grado di risalire nel gruppo abbastanza alla svelta. Una volta lontano dagli spruzzi dell’acqua, con la visuale libera, davanti avevo soltanto Spencer sulla Honda, che aveva creato un bel margine. Lo andai a prendere e a otto giri dalla fine lo superai nell’ultima parte della pista, all’esterno. Quel giorno mi veniva tutto naturale”.

Sul bagnato eri uno dei più veloci: perché?

"Come sull’asciutto, il segreto era trovare subito il limite all’anteriore e al posteriore, in ogni curva. Poi, il problema era non esagerare: più facile a dirsi che a farsi. Dicevo a me stesso: se sai qual è il grip, non ci saranno sorprese. Era anche un esercizio psicologico: l’erogazione delle nostre 500 a due tempi faceva paura anche senza la pioggia, figuriamoci sul bagnato. Le chiamavano ‘le inguidabili’. Eravamo tutti sulla stessa barca: sapevo che, riuscendo a controllare la fifa, avrei avuto un vantaggio. Probabilmente approfittavo anche del mio stile di guida, composto e pulito”.

Americani e australiani erano spesso di traverso, vero?

“Sapevano derapare, anche perché avevano fatto tanto Motocross e sterrato. Io non ne ero capace, non mi allenavo in quel modo. Sotto questo aspetto mi consideravo inferiore. E poi loro correvano da quando erano ragazzini, io avevo iniziato a 20 anni. Avevo meno esperienza”.

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