Orgoglio tricolore, il Tourist Trophy di Bonetti

Orgoglio tricolore, il Tourist Trophy di Bonetti

Bonetti e la bandiera per lo storico primo trionfo italiano alla North West 200

09.05.2023 09:35

Da marzo il tricolore ha invaso i balconi e le finestre. Nella storia repubblicana non se ne erano mai visti così tanti in una volta sola, nemmeno per un trionfo della Nazionale di calcio ai Mondiali. Un anno fa, invece, la bandiera italiana fece capolino su quotidiani e siti delle due Irlande, palesandosi persino sulla BBC. Merito di un’altra bandiera, questa volta in senso non letterale, del motorismo italiano. Un meccanico bergamasco che negli ultimi tre lustri, pur tra indicibili difficoltà nel reperimento di sponsor, ha tenuto alto il nome dell’Italia: Stefano Bonetti è il suo nome, sconosciuto al 90 percento di quanti seguono la MotoGP. Limite di una disciplina, le gare stradali, che non vanno in TV. Ha vinto 11 titoli italiani, tanti ma comunque meno di Stefano Manici e Giovanni Burlando, a differenza dei quali ha però sempre guardato oltre confine. O meglio, ha messo nel mirino il Tourist Trophy salvo scoprire, nel 2004 quando è sbarcato sull’Isola di Man, un universo di gare che abbraccia un arco temporale e spaziale più esteso: «Vidi alcune videocassette sulla North West 200 e pensai che l’anno dopo sarei stato via un mese correndo prima sul Triangle e poi sul Mountain». Ai primi di maggio del 2005 partì dalla sua Castro con l’amico Oscar su un vecchio Ducato blu contenente una Yamaha R6 e una Suzuki Mille. Dopo quasi 48 ore di viaggio raggiunsero Portrush, estremità settentrionale dell’Irlanda del Nord, dove nessun italiano aveva mai corso. Già perché a differenza del TT e dell’Ulster GP che ospitarono gare del Mondiale dal 1949 fino agli anni Settanta, la NW 200 non ha mai fatto parte di alcun campionato. Il primo anno tutto o quasi andò storto, a partire dalla sistemazione: «Eravamo impreparati al clima, un freddo da brividi, vento e acqua. Dormivamo nel furgone ed essendo arrivati lunedì sera al paddock trovammo posto soltanto nel fango».

Le prime gare

Eppure, l’anno dopo era di nuovo lì e pure in quelli successivi, nonostante guidasse moto non troppo performanti. Nel 2018 ha però conosciuto Vittorio Salerio, reduce dell’acquisto della Paton S1 con cui Stefano era stato quarto al TT. Gliel’ha chiesta in prestito per Frohburg (Germania) dove ha conquistato due vittorie in altrettante gare. Poi, in inverno, l’illuminazione: partecipare alla NW200 nella Supertwin, sempre con la Paton del legnanese. Quando a inizio aprile del 2019 me l’ha rivelato, con nonchalance durante un’intervista, ricordo di averglielo fatto ripetere, temendo di aver capito male. Chi scrive, il giorno stesso ha prenotato biglietti aerei e B&B: non potevo mancare, era l’ora di raccogliere i frutti di tale semina. I tempi delle qualifiche del martedì sembravano avvalorare la mia tesi: quinto crono, a due secondi e 976 millesimi da Jamie Coward. Un’inezia su un tracciato di 14,4 km. E nelle pieghe degli intertempi si celava un dato interessante: Bonetti era l’unico della Top 10 il cui tempo ideale – tenendo conto del miglior tempo in ogni settore – era più basso di 2 secondi e 7 decimi rispetto al suo miglior crono. Eppure Stefano mi aveva risposto: «Ma no, ho tirato, sono al limite». Non ne ero convinto, ma non era il momento di dimostrarglielo. Mancavano un paio d’ore alla gara.

Il resto è storia: partito dalla seconda fila (se al TT le partenze sono scaglionate, alla NW 200 si corre tutti assieme), Bonetti ha chiuso il primo giro in seconda posizione dietro Jeremy McWilliams. Sì, quel McWilliams che nel 2000 contese un successo nella 500 GP a Valentino Rossi. Superato il nordirlandese sui lunghi rettilinei di Portstewart, Bonetti ha tentato la fuga, agevolato dalla caduta proprio di McWilliams a Mather’s Chicane. All’ultimo giro Bonetti ha resistito al tentativo di rimonta di Jamie Coward battendolo per mezzo secondo. Un istante dopo ho estratto dalla tasca la bandiera che avevo comprato il giorno prima di partire e di cui, per scaramanzia, non avevo fatto parola a nessuno. Ho fatto in tempo a dargliela prima che il leggendario fotografo Stephen Davison chiedesse ai meccanici di issarlo, per realizzare lo scatto che (sopra) vedete, poi diventato virale. Well deserved Stefano

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