L'estetica secondo Bimota | Polvere di Stelle

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Dai capolavori di Tamburini alla Tesi di Marconi e Ugolini: la Casa riminese è protagonista della nostra rubrica

03.03.2024 ( Aggiornata il 03.03.2024 17:17 )

La nostra storia comincia dal 1973 e inizia con due nomi di massimo prestigio – Bimota e Massimo Tamburini – che meriterebbero mille volte lo spazio di questa rubrica. La Casa riminese debuttò quell’anno con l’ambizioso obiettivo di costruire moto sportive e da corsa di assoluta avanguardia non soltanto nella tecnica (motore escluso), ma anche nell’estetica.

E Tamburini, autodidatta animato da un incredibile talento naturale e da una passione infinita, con l’importante contributo di Giuseppe Morri, socio fondatore e abile amministratore, fu l’uomo capace di realizzare autentici capolavori e intuire soluzioni ardite e innovative che avrebbero destato meraviglia. Tra i modelli Bimota da lui disegnati e plasmati ne ho scelti due, uno stradale e uno da GP: KB1 e YB1, entrambi prodotti all’inizio dell’attività della Casa riminese e artefici di una fama propagatasi fulmineamente fra gli appassionati di moto di tutto il Mondo.

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Bimota: KB1 e YB1


La KB1, ossia Kawasaki-Bimota 1, fu la trasformazione ideata da Tamburini per la Z1 900, potentissima quattro cilindri con cui la marca giapponese aveva fatto la sua comparsa fra le maxi-moto sportive con motore quattro tempi. Trattandosi di un modello esuberante di cavalli che la ciclistica di serie stentava a contenere, e con un’impostazione estetica ed ergonomica da gran turismo certamente inadeguata alle prestazioni disponibili, il designer romagnolo decise di stravolgere la moto originale. Dotandola così di un nuovo telaio, di ruote e freni al top, e di un gruppo sella, serbatoio e carenatura da autentica “racing”. Il successo fu immediato, tanto che la KB1 fu la Bimota più venduta dei suoi primi vent’anni.

La YB1 (Yamaha-Bimota 1) venne costruita con l’intento di partecipare alle corse del campionato italiano nelle classi 250 e 350, dove il competitivo bicilindrico due tempi di Iwata era disponibile e garantiva prestazioni sufficienti per competere al più alto livello. Tamburini disegnò per questa moto un telaio leggerissimo la cui caratteristica, unica nel suo genere, era il percorso diretto del tubo superiore dal cannotto di sterzo al fulcro del forcellone, una struttura che sarebbe stata in seguito universalmente adottata. Concepì poi una scocca in vetroresina incorporante la sella e il rivestimento del serbatoio del carburante, perfettamente accordata con la profilatissima carenatura. La YB1 si rivelò tanto competitiva da lottare subito per la vittoria con i piloti della Bimota, i riminesi Luigi Anelli e Giuseppe Elementi, e questo indusse molti loro avversari e parecchi team fra i più quotati a livello internazionale ad acquistare le moto o i kit di trasformazione Bimota, introducendoli anche nel Mondiale.

È superfluo ricordare che Massimo Tamburini, una volta interrotto il rapporto con la Bimota, disegnò poi per la Ducati la splendida 916 e per la MV l’altrettanto stupefacente F4. A proposito di quest’ultima non posso esimermi dal proporre un aneddoto circa la presentazione della Superbike con cui il marchio MV tornò dopo anni di assenza dal mercato. Tamburini – che era un tipo abbastanza introverso – stancatosi in quell’occasione di essere al centro dell’attenzione, si rivolse a me, dicendomi in dialetto romagnolo “Vieni con me, che non ne posso più”. Raggiungemmo una stanza vuota e lì, tra le altre cose, mi spiegò che la F4 aveva il telaio scomponibile perché lui, amando anche lavorare sulla moto, teneva in considerazione pure i problemi che avrebbero affrontato i meccanici nei loro interventi di manutenzione e riparazione. Per lo stesso motivo aveva fatto in modo di ridurre al minimo le differenze fra le misure dei bulloni e dei dadi. E questo fu il suo esempio: “Se una scimmia stupida scende da un albero e vede un bullone per terra vicino a una mia moto, deve capire immediatamente dove va avvitato”. Gli feci notare che sulla cartella stampa della MV F4 si leggeva che le pinze dei freni erano “autospurganti”, una caratteristica unica. E Tamburini, che le aveva progettate, mi spiegò: “Prima di pensare alle moto, facevo impianti di riscaldamento. Lì ho imparato dove va l’aria…”.

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