Le due tempi jap che invasero l'Italia | Polvere di Stelle

Le due tempi jap che invasero l'Italia | Polvere di Stelle

Yamaha RD 350, Suzuki GT 380 e Kawasaki 400 scrissero pagine indelebili, in una fase di evoluzione del mercato caratterizzata dal confronto con la tecnologia 4T

12.08.2023 ( Aggiornata il 12.08.2023 19:51 )

Attraverso le pagine del nostro giornale, Polvere di Stelle si è occupata del mercato motociclistico italiano all’inizio degli anni Settanta, quando leggi dello Stato varate con l’intento di ostacolare la diffusione delle maxi-moto giapponesi favorirono la popolarità, mai in precedenza goduta nel nostro Paese, delle motociclette di 350 cm³.

Fiorirono nuove proposte, molto appetibili per modernità, stile e affidabilità, e fra queste si distinsero soprattutto la Honda CB 400 Four Super Sport e anche un’italiana, la Moto Morini “Tre e mezzo” nelle versioni GT e Sport.

Sia la Honda che la Morini erano a quattro tempi, ma in quel momento cruciale per il progresso tecnico della motocicletta il confronto fra il ciclo Otto e il ciclo Clerk era particolarmente acceso, sia sul mercato delle moto stradali che in quello delle competizioni (limitatamente alla classe 500): soltanto nel Motocross il due tempi aveva ormai guadagnato la supremazia in maniera assoluta.

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L'invasione jap: Yamaha


Fra le moto stradali, rappresentante più qualificata del due tempi era la Yamaha bicilindrica, che stava già dominando la 250 del Motomondiale e stava insidiando lo strapotere della MV Agusta quattro tempi nella 350. La GP della Casa di Iwata derivava strettamente da un modello di serie, la Yamaha 250-350 bicilindrica a due tempi. Con una 250 derivata di serie, non disponibile sul mercato italiano ma ottenuta da un concittadino titolare di una concessionaria in Svizzera, nel 1971 Mario Lega si impose nel campionato italiano Juniores di Velocità sbaragliando l’imbelle concorrenza delle monocilindriche a quattro tempi italiane derivate di serie. Insomma, quella bicilindrica Yamaha era davvero un portento e la RD 350, offerta tra l’altro a un prezzo molto concorrenziale, divenne un best seller del mercato pur avendo soltanto due cilindri in un momento in cui sembrava che almeno tre fosse il minimo.

Importata dall’Italjet di Leopoldo Tartarini in numeri contingentati, inizialmente la Yamaha 350 stentò per questo motivo a diffondersi in Italia. Dal Giappone arrivavano continuamente versioni aggiornate, ma l’importatore non sempre ne sottoponeva a omologazione le modifiche. Ricordo che in occasione di una 500 Chilometri per moto di serie a Vallelunga, l’equipaggio Papa-Borghese, che si presentava in sella a una Yamaha RD 350, fu contestato alle verifiche perché la moto aveva il freno a disco – che era esattamente quello montato sulle RD di serie di ultima generazione – anziché quello a tamburo dei modelli precedenti, che invece era riportato nella fiche di omologazione in mano ai commissari FMI.

La RD 350 era leggera, snella ed elegantemente sportiva, stranamente esente dai difetti delle due tempi “spinte” di quel periodo, ossia frequenti, disastrosi e pericolosi grippaggi. L’esperienza acquisita vincendo titoli mondiali di Velocità in 125 e 250 con i più sofisticati motori due tempi quattro cilindri allora esistenti, e continuata – dopo che il nuovo regolamento aveva imposto non più di due cilindri e sei rapporti del cambio alle 250 e 350 – con le bicilindriche derivate di serie, aveva fatto sì che la Yamaha potesse vantare il primato tecnico nei motori a due tempi, da corsa come da strada.

La versione RD, evoluzione della R5 del 1970, arrivò in Italia nel 1973 e rimase sul mercato fino al 1994. Nel 1979 il motore venne dotato di raffreddamento a liquido e la potenza salì da 39 a 47 CV. Nel 1976 la 350 fu affiancata dalla RD 400 che restò in catalogo fino al 1980. Non ebbe in Italia il successo della versione di minor cilindrata, ma stabilì comunque dei primati: fu la prima moto di serie con cerchi in lega e conquistò, per la sua categoria, il primato di accelerazione sul quarto di miglio. La prestigiosa rivista americana Cycle World la definì “La cosa più vicina a una motocicletta perfetta”.

Le bicilindriche stradali di Iwata non erano dunque soltanto grintose: non erano nemmeno scorbutiche da guidare. Però, forse per il collegamento d’immagine con le corrispondenti moto da corsa, facevano proseliti soprattutto fra i giovani motociclisti più smanettoni.

La Suzuki


A quelli più “tranquilli” si rivolse invece la Suzuki presentando, nel 1971, il modello GT 380 con motore due tempi tre cilindri in linea frontemarcia. Già quel cilindro in più era un’attrattiva per molti, ma anche l’estetica decisamente raffinata, sia per quanto riguardava il motore, che per la ciclistica e la carrozzeria, colpiva piacevolmente l’occhio.

L’impostazione, come detto, era turisticosportiva con ricercatezze stilistiche come i quattro silenziatori, uno in più del necessario per non rovinare la simmetria, ottenuto sdoppiando lo scarico del cilindro centrale. Tecnicamente il propulsore era al top dello sviluppo del due tempi per applicazioni stradali.

Si distingueva, anche esteticamente, per la presenza, al di sopra delle teste dei cilindri, di un convogliatore sagomato per favorire l’afflusso d’aria di raffreddamento. Il sistema era marcato RAS (Ram Air System) e svolgeva bene il suo compito, visto che il motore della Suzuki 380 non soffrì mai dei problemi di surriscaldamento che invece erano ben noti ai proprietari delle contemporanee Kawasaki due tempi a tre cilindri.

Oltre al RAS, la 380 di Hamamatsu poteva vantare un sistema di lubrificazione esclusivo molto efficiente e un miscelatore automatico la cui portata d’olio era proporzionale al numero dei giri del motore e all’apertura della manopola del gas. Ciò che invece non era al passo con i tempi, almeno nella prima versione, era l’impianto frenante a tamburo anche sulla ruota anteriore, ma la Suzuki non attese molto a sostituirlo con un bel disco già nella seconda serie prodotta.

La potenza della GT 380 all’esordio era di 38 CV; nel 1975 salì a 41. La velocità massima sfiorava i 170 km/h, ma era ostacolata dalla posizione di guida eretta e dal manubrio turistico.

Il successo sul mercato italiano non fu forse quello che la Suzuki si attendeva, tuttavia i concessionari non ebbero di che lamentarsi, anche perché l’affidabilità del modello favoriva il positivo “passaparola” ed evitava contenziosi con i clienti.

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