Esclusiva, Davide Brivio: “Con il suo arrivo, Rossi cambiò la mentalità Yamaha”

Esclusiva, Davide Brivio: “Con il suo arrivo, Rossi cambiò la mentalità Yamaha”© Getty Images

Il brianzolo ricorda l'esperienza in MotoGP: "Nel 2004, anche grazie al lavoro di Furusawa, la Yamaha diventò dominatrice"

03.02.2022 ( Aggiornata il 03.02.2022 10:59 )

Quattro titoli MotoGP nell’arco di sei stagioni hanno fatto entrare Valentino Rossi nell’Olimpo dei piloti della Yamaha: nessuno, neppure le grandi stelle americane né Jorge Lorenzo, ha portato tanti titoli della classe regina a Iwata. Un periodo contraddistinto dalla classe di Valentino, dalla fusione con la Casa di Iwata del suo gruppo di lavoro capitanato da Jeremy Burgess dopo la lunga storia con la Honda.

E ancora dalle intuizioni tecniche di Masao Furusawa, e dalla doppia bravura di Davide Brivio, capace prima di imbastire la trattativa per Rossi nel 2003, quando il Fenomeno sembrava inarrivabile per una Casa che in quella stagione otteneva un solo podio nell’arco di 16 GP, e poi di gestire Valentino nella prima parte dell’avventura in Yamaha. E proprio Brivio racconta quegli anni vissuti accanto a Rossi e al responsabile tecnico Furusawa. Un passato che evoca bei ricordi all’attuale manager della Renault-Alpine in Formula 1, incarico ottenuto dopo il titolo di Joan Mir con la Suzuki MotoGP. “Il mio merito con Valentino? Forse quello di credere in una mossa da incoscienti". Perché il tentativo velleitario di togliere Rossi alla potenza dominante, l’HRC, e portarlo in una Casa in difficoltà, ebbe successo.

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Brivio: "Furono anni magici"


Davide, come definiresti gli anni vissuti con Rossi in Yamaha?

“Magici. Ero in Yamaha MotoGP da due anni e vivevamo una situazione difficile. Soprattutto nel 2003 eravamo saliti sul podio soltanto una volta, e la Honda era un’assoluta dominatrice. All’epoca c’erano soltanto Honda, Ducati e Yamaha, con la prima dominante e noi ad arrancare. L’arrivo di Valentino, unito al contributo di Furusawa che prese in mano l’organizzazione, cambiò la storia della Yamaha in MotoGP”.

Si ribaltarono i ruoli con la rivale storica.

“Da sfidante impotente della Honda, la Yamaha divenne una grande concorrente. Furono anni importantissimi, la base di quello che poi è stata la Yamaha negli anni successivi”.

Cosa legava Rossi a Furusawa?

“Si era creato un rapporto di grande fiducia reciproca, perché Furusawa era arrivato poco prima di Rossi a riorganizzare tutta l’attività del reparto corse. Quindi lui iniziava l’avventura della MotoGP e Valentino era appena arrivato da noi. Erano un po’ tutti e due nuovi. Fu un percorso che cominciarono assieme, e fu spontaneo il rapporto di grande complicità”.

Rossi arrivò anche per merito di Furusawa.

“Prima dell’arrivo di Furusawa, stavamo provando a convincere la Yamaha a prendere Valentino, ma senza grande successo. Con l’arrivo di Masao vidi l’opportunità di riprovarci e ripartire da zero. All’inizio rimase sorpreso, ma con lui trovai una porta aperta. Accettò subito di parlarci e il primo incontro tra i due fu molto carino, cordiale. Si creò una buona atmosfera. Fu proprio Masao a fare un grande azione in Yamaha per convincere poi il Presidente”.

L'approccio di Valentino


Rossi trionfò subito: te lo saresti aspettato?

“No, l’idea era questa: il 2005 sarebbe stato il 50° anniversario della fondazione della Yamaha Motor, e quindi l’arrivo di Valentino era perfetto per celebrarlo con un successo. Il 2004 doveva essere l’anno per ‘sistemare’ la moto, Valentino si sarebbe adattato e poi avrebbe puntato a vincere l’anno successivo. E invece trionfò subito, anche se la moto non era perfetta. Non posso dire che fu inaspettato, ma lo consideravamo molto difficile, visto che arrivavamo dal dominio Honda”.

Cosa portò Valentino al gruppo?

“L’approccio mentale a vincere. Un conto è partecipare alle gare cercando di fare il massimo e un conto è farlo perché devi vincere il campionato. È un lavoro completamente diverso. Valentino ha insegnato alla Yamaha a spingere al massimo su tutto, a curare i dettagli della moto ma anche quelli organizzativi. Potrei definirla quasi ‘l’arte della guerra’, anche a livello strategico. Come magari riuscire a essere più forti dell’avversario, o a indebolirlo quando si poteva. Tutto ovviamente dal punto di vista sportivo. Ha portato questo approccio di essere al massimo in tutti i settori, senza trascurare nulla. Un grande cambio di mentalità”.

E a livello umano?

“Dal mio punto di vista credo abbia dimostrato e abbia fatto vedere – perché è parte del suo carattere, non per una strategia – che si può essere altamente professionali e vincere anche con leggerezza e divertendosi. A volte il fatto di ridere o scherzare viene visto come poco serio, invece lui ha dimostrato che si può essere molto professionali quando bisogna allenarsi e quando si scende in pista. In quei momenti c’è la massima concentrazione e si spinge al massimo. Poi quando è finita la gara, si va a cena la sera e ci si può anche divertire senza che questo vada a influenzare l’altra parte. È stato per me un grande insegnamento”.

Quale messaggio ha mandato Valentino vincendo questa grande sfida?

“Ha fatto capire quanto il pilota sia importante in questo sport. In quegli anni, 2001, 2002 e 2003 si cominciava a pensare che, con una certa moto, chiunque potesse vincere. Questa certezza l’ha smentita dimostrando che era merito anche suo. L’ha sbattuta in faccia a tutti, mostrando quanto il pilota potesse fare la differenza”.

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Le vittorie, le sconfitte


Come descrivi i suoi quattro titoli con la Yamaha?

“Sono molto diversi l’uno dall’altro. Il primo fu quello importante, perché aveva lasciato la Honda e doveva dare un segnale: fu un titolo un po’ a sorpresa. Nel 2005 ci saremmo dovuti confermare, sapendo che la Honda avrebbe reagito, invece con la moto nuova ottenemmo addirittura la tripla corona: i titoli piloti, costruttori e team”.

Poi ci furono due anni di pausa.

“Arrivarono le sconfitte, perché il 2006 - anche se adesso da un certo punto di vista è stato bello che abbia vinto Nicky Hayden - fu la prima sconfitta di Valentino, e pesò davvero tanto, furono necessari alcuni mesi per assorbirla. Nel 2007 partimmo aggressivi per rivincere e invece arrivò Casey Stoner. Quell’anno trovammo dei problemi: la Ducati era con le Bridgestone, e le nostre Michelin non erano abbastanza competitive, e fu un’altra sconfitta”.

Il 2008 fu l’anno della rivincita.

“L’anno della rinascita, e questo valore lo ha reso un titolo ancora diverso dai precedenti. Il 2009 è stato l’anno della lotta con Jorge Lorenzo, che era l’astro nascente. Sono quattro Mondiali, ma ognuno ha una sua sfaccettatura, una storia diversa e un valore tutto suo”.

In Yamaha come li hanno vissuti?

“La Yamaha è passata da essere sfidante quasi inerme a recitare da protagonista. Questo ha creato molta più consapevolezza in tutti, i dipendenti erano tutti molto orgogliosi di far parte della Casa e di questa storia. Credo che per Furusawa sia stata anche una grande consacrazione, perché era la fine della sua carriera. Tra l’altro Masao, attorno alla fine del 2004, ebbe anche un grossissimo problema di salute: gli venne diagnosticata una brutta malattia e se la trascinò un po’ troppo proprio perché stavamo vincendo il Mondiale. Noi non lo sapevamo, lo scoprimmo dopo. Poi nel finale di stagione, quando ormai le cose si erano messe bene, decise di farsi curare e tutto andò nel migliore dei modi”.

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