Lo Spazio Morbidelli, la rinascita di un mito

Lo Spazio Morbidelli, la rinascita di un mito

La collezione privata del costruttore pesarese torna a splendere grazie alla famiglia. Il figlio Gianni: "Glielo dovevo"

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Jeffrey Zani

25.08.2023 ( Aggiornata il 25.08.2023 13:06 )

PESARO – Sotto il completo scuro e impeccabile che indossava qualche settimana fa durante una cerimonia in preparazione da mesi, Gianni Morbidelli nascondeva una cicatrice che porta con sé da quando, bambino delle elementari, affrontò un’esperienza che a descriverla adesso fa ancora strabuzzare gli occhi e irrigidire la lingua.

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Il mito Morbidelli


Ex pilota di Formula 1 al volante di vetture come Minardi, Footwork e Sauber, collaudatore Ferrari come scudiero di Alan Prost e Nigel Mansell, il cinquantacinquenne pesarese nei segni di quella ferita porta uno dei primi ricordi legati a un motore. Non c’era di mezzo un’auto, però, quella volta: nella carne, sotto il ginocchio destro, si era infilata la pedana di un’Italjet a ruote basse che lui, a metà anni ’70, usava come un funambolo esplorando la stessa passione che il 17 giugno scorso, nella sua città, è stata celebrata in nome del padre, l’uomo che gli ha dato i geni, prima, un motore, poi, e i mezzi per scalare il mondo delle quattro ruote, dopo.

Giancarlo Morbidelli: di professione imprenditore di macchine per la lavorazione del legno, per sfizio costruttore da quattro titoli nel Motomondiale, per vocazione artista del tecnigrafo capace di tradurre sulla carta e nel metallo soluzioni di tutti i tipi, fino a progettare un cambio pneumatico per la F1 e un motore a sei cilindri, due tempi, per la F2. A queste rumorose creature e a lui, scomparso il 10 febbraio di tre anni fa, il figlio Gianni e la famiglia dedicano ora lo Spazio Morbidelli, inaugurato con una cerimonia privata, intensa e discreta, nella quale l’asso del volante ha accolto gli ospiti uno a uno, nel completo scuro e impeccabile, accompagnandoli in un’area di 500 metri quadrati che ospita le soluzioni più originali e vincenti del padre: su tutte, i prototipi da GP messi in pista fra la seconda metà degli anni ’60 e la prima degli ’80, in una fase storica e sportiva che incoraggiava soluzioni in bilico fra artigianato e intuizione, talento e improvvisazione, lampi di scienza e sprazzi d’incoscienza.

“Abbiamo realizzato un luogo leggibile che permette anche a chi non ha un’approfondita conoscenza del Motorsport di orientarsi e capire” spiegano gli architetti Fabio Pradarelli e Deborah Sparacca, che hanno reso tangibile la visione di Gianni. “A volte i musei rischiano di sembrare magazzini, ma noi volevamo qualcosa di radicalmente diverso. L’abbiamo fatto bilanciando la nostra creatività con la mania del dettaglio di un ex collaudatore Ferrari”.

Gianni Morbidelli: "Lo dovevo a mio padre"


L’area è nata sulle ceneri del precedente Museo Morbidelli, dove Giancarlo aveva raccolto circa 350 moto da tutto il Mondo e di ogni epoca, fra meraviglia e abbondanza. Oggi, in una struttura rivista, riemerge una selezione con la quale il figlio ha espresso un istinto di gratitudine e commozione, all’insegna della tecnica e dell’agonismo: “Semplicemente, questa cosa io a mio padre la dovevo” le parole di Gianni. “Dicono che era un genio ed era vero. Un inventore. Se nel bagno di casa si rompeva la doccia, lui non chiamava mica l’idraulico. Si metteva al lavoro per progettare qualcosa di nuovo che evitasse il ripetersi del problema”.

Una figura immensa, la sua, nello sport a motore, come confermato dai piloti presenti all’inaugurazione. Fra loro Pier Paolo Bianchi, che sulle 125 pesaresi ha vinto due Mondiali. Mario Lega, che ne ha conquistato uno in 250. Gianni Pelletier, ricordato alla guida dell’inconfondibile 500 con telaio monoscocca, una sella occupata anche da Graziano Rossi. E poi Eugenio Lazzarini, che ha stretto i manubri dei prototipi di piccola cilindrata realizzati da Morbidelli prima di involarsi verso tre titoli. Suo fratello Enzo, anche lui presente, era stato il primo pilota del Marchio: "Correvamo con una Benelli 60 trasformatissima, colorata di verde. Poi, nelle prove di una delle prime uscite del campionato italiano caddi e ruppi la carena”.

Per la gara Giancarlo la sistemò come si sarebbe fatto con un tessuto da cucire, ma usando il filo di ferro per unire le parti spezzate. All’appuntamento successivo la moto era impeccabile e aveva la livrea bianca e blu che ha contraddistinto la Casa in tutta la sua storia”.

E che saga, è stata. Dai giochi in officina alle gare vere, dall’arrivo dei primi collaboratori agli esperimenti tecnici che portarono alla 125 con cui Gilberto Parlotti, nel 1972, aveva finalmente nel mirino un titolo che sembrava alla portata. Ma ci si misero di mezzo la nebbia dell’Isola di Man, una caduta e una tragedia enormi, una perdita mai colmata. Oltre al triestino vestirono i colori Morbidelli piloti come Angel Nieto, Alberto Ieva, Giacomo Agostini, Paolo Pileri per il primo iride nel 1975 e tanti altri.

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Gianni Morbidelli: "Mio padre era un uomo fantastico"


Tecnici come Franco Ringhini e l’ingegnere Jörg Möller, supportati da Giancarlo Cecchini, Franco Dionigi, Giancarlo Bonaventura, Fabio Barucca e altri esperti dei box e dei reparti corse. Per sfidare colossi come Yamaha e Kawasaki, vincere e ripetersi. Almeno fino a quando l’attenzione di Giancarlo non si è spostata al 100% sul figlio. Gianni, già. L’aspirante Alboreto che ha corso con i grandi davvero. “In realtà il primo mezzo con cui mi sono cimentato è stata una moto” ricorda. “Ero un bambino e me la cavavo, per me era un gioco ma capitava di finire in pronto soccorso. Una volta mi avevano pure proposto di fare da apripista ad Abbazia, sullo stradale allora jugoslavo, ma mia mamma si mise di traverso e non ci fu nulla da fare. Così, per non aggravare la sua preoccupazione senza soffocare la mia indole, mi spostai sui kart, che sembravano più sicuri. E ho iniziato a gareggiare”.

In quel periodo Gianni era “il figlio di Giancarlo”, né più, né meno. Quella dell’imprenditore pesarese era una presenza preziosa ma allo stesso tempo ingombrante. “Un uomo fantastico, penso che se avessi giocato a bowling mi avrebbe costruito una palla più rotonda delle altre” scherza Gianni. “Ma più andavo avanti, più volevo fare la mia strada e affermare il mio, di nome. Sono cose che si fanno sentire, soprattutto quando sei adolescente. Alla fine ce l’ho fatta, e nei paddock delle quattro ruote mio padre veniva indicato come ‘il papà di Gianni’. La situazione si era ribaltata”.

Al di là del percorso sportivo, testimoniato da un picco espresso nella massima categoria su quattro ruote (con anche un GP corso sulla Ferrari), a Gianni resta il ricordo dei viaggi in un furgone Bedford con il kart caricato dietro, le soste di notte a bordo strada quando Giancarlo non riusciva più a guidare e schiacciava un pisolino. “E quella volta in cui mi passò il volante, avrò avuto 15 anni, e gli ultimi chilometri li guidai io”.

Un papà come tanti, forse, o magari no. Difficile dirlo. Sicuramente, un vulcano di entusiasmo e idee che nell’ambiente dei motori, soltanto a pronunciarne il nome, fa muovere qualcosa di grande nello stomaco e nel cuore, come conferma la visione del documentario “Morbidelli - storie di uomini e di moto veloci” su Amazon Prime Video. Era sempre impegnato in qualcosa di superbo. Lasciava gli schizzi dei suoi progetti dappertutto. Ne ricordo alcuni sulla carta igienica, per esempio, e anche sulla sabbia delle spiagge del Kenya, dove abbiamo avuto una casa”.

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