Sito Pons: "Ho fatto scoprire la 250 alla Spagna" | Storie Sprint

Sito Pons: "Ho fatto scoprire la 250 alla Spagna" | Storie Sprint© Archivio Motosprint

Gli inizi, la rivalità con Mang, i trionfi, i tonfi: la nostra intervista esclusiva alla leggenda spagnola

Jeffrey Zani

25.08.2023 ( Aggiornata il 25.08.2023 13:06 )

Sito Pons era furioso. E chissenefrega se la sua rabbia era rivolta verso uno degli sportivi più consolidati del periodo, mentre lui era un novellino che si era appena affacciato sul palcoscenico internazionale. Non trattenne le parole, corse da Toni Mang, vincitore di cinque titoli nelle classi intermedie del Motomondiale negli anni ’80, e gli picchiettò l’indice sulla spalla per richiamare la sua l’attenzione.

Quel dito poi lo utilizzò per indicare la scritta che aveva sulla tuta. Dove c’era il proprio cognome. “Lo leggi? Ricordatelo, perché una manovra come quella di oggi non me la farai più. Altrimenti vedrai”.

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Sito Pons e la "promessa" a Toni Mang


Fu la scintilla, questa, di un duello sportivo e verbale trascinatosi per gran parte del decennio, con lo spagnolo sempre più affermato nella classe 250 e in grado di dare del filo da torcere ai migliori, incluso il tedesco. Quella volta a indispettire Pons fu una carenata, mentre successivamente nel 1988, a Suzuka, a farlo esplodere fu la frustrazione.

La coppia si giocava la vittoria assieme a un pilota di casa, Masaru Kobayashi, trionfatore l’anno prima al ritorno del Mondiale in Giappone dopo una lunga assenza. Nelle fasi decisive, prima della bandiera a scacchi, una manovra del nipponico rovinò le possibilità di Pons, finito così secondo dietro a Mang. Spenti i motori, prima della conferenza stampa, lo spagnolo lo rifece e sventolò l’indice sotto il naso del vecchio nemico: “Questa è l’ultima gara che vinci”.

Una frase profetica, perché l’allora trentottenne tedesco – campione in carica della 250 – in effetti non calpestò più il gradino più alto del podio. La rivalità fra i due diventò una forma di stima reciproca, tanto che a fine anno, quando Pons mise le mani sul primo dei due titoli iridati consecutivi nella quarto di litro, Mang lo omaggiò con un gesto di massima sportività: staccò dalla carena della propria Honda l’adesivo numero 1 e lo consegnò all’avversario. Una piccola cerimonia privata, specchio di un ambiente in cui comportarsi da gentiluomini era un valore.

Quell’epilogo consacrò Pons fra i grandi del motociclismo: primo spagnolo a vincere l’iride nella 250, categoria che per gli iberici era quasi un tabù, più tardi si fece sotto pure in 500, trovando però più freni che stimoli. Qualche caduta di troppo, un’impazienza esagerata, la nascita di un figlio, l’impasse tecnica che sembrava insormontabile. Astuto e ambizioso, stratega essenziale, talento fenomenale: questo era Pons.

Occhi di ghiaccio, i suoi: per capire come gli girava occorreva leggere le estremità delle labbra. All’insù per spruzzare lo champagne dal podio o scherzare, leggermente all’ingiù quando le cose si facevano serie e la concentrazione era massima. Una trentina abbondante d’anni fa rimontare fino al podio dall’ultima posizione non gli sembrava nemmeno così speciale, annebbiato com’era dall’imperativo di vincere.

Ma oggi, nel Motomondiale con un team che porta il suo nome da decenni – e con il quale ha seguito assi come Alex Criville, Loris Capirossi e Max Biaggi – se si guarda indietro Pons annuisce con una leggera punta d’orgoglio negli occhi. E i lati della bocca vanno nella direzione giusta. Verso l’alto.

Quella volta con Mang, molto prima dei tuoi titoli: provò a intimidirti e sentisti di dover mettere le cose in chiaro?

“Ero arrivato da poco, non ero nessuno. In una staccata invece di fare la sua linea mi diede una sportellata, per poco non mi buttava fuori. Rompemmo il ghiaccio così, noi due”.

A Suzuka, nel 1988, perché lo apostrofasti? In fondo non aveva fatto nulla di scorretto, era stato Kobayashi a pasticciare.

“Ero arrabbiato, tutto qui. Perché aveva vinto lui e non io. Allora gli dissi che non sarebbe mai più salito sul gradino più alto del podio”.

Un po’ promessa e un po’ minaccia, la tua.

“Quell’anno ci ritrovammo ai ferri corti anche a Spa-Francorchamps. La gara fu interrotta per un incidente e divisa in due parti, con il risultato finale dato dalla somma dei tempi. Al momento dello stop avevo un po’ di vantaggio, così mi sarebbe bastato arrivare nella sua scia. Ma ricordavo quella promessa: non volevo che vedesse la bandiera a scacchi per primo. All’ultimo giro lo sorpassai all’esterno in una curva da quinta piena, il guard-rail vicinissimo. A fine gara dichiarò che avevo vinto nello stile che piaceva a lui. Mi fece piacere”.

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I primi passi nella 250, la rivalità con Garriga


A impensierirti nel 1988 fu Joan Garriga, spagnolo come te. La vostra rivalità è leggenda e vi vedeva agli antipodi: tu il freddo calcolatore, lui spontaneo è istintivo.

“Era estroverso, aveva un modo di fare spontaneo. Io ero più riflessivo, tranquillo, focalizzato sull’obiettivo. Non si era mai visto uno spagnolo forte in 250, figuriamoci due iberici in lotta per il titolo! I tifosi impazzirono, c’erano cinque milioni di telespettatori per le nostre gare. Alcuni amavano Garriga, altri Pons”.

Perché prima di voi la 250 non era stata il terreno di caccia giusto per gli spagnoli?

“Quando cominciai io, praticamente di veloce non c’era nessuno. Quelli del campionato nazionale mi dicevano di lasciar perdere, prima che ci provassi: ‘Che vai a fare là? Ti daranno due giri, tornerai con la coda fra le gambe’. Le serie spagnole si correvano nei circuiti cittadini, ci giocavamo la vita a 200 km/h e a pochi centimetri dal pubblico, era pericoloso per tutti. Non aveva senso. Io sognavo il Paul Ricard, Silverstone”.

Con tale ambizione, raggiungesti i massimi livelli in un lampo.

“Lo ammetto: non ero uno sfegatato della moto. Studiavo architettura a Barcellona, tutti i giorni andavo all’università con la Vespa di mio nonno, vecchia di vent’anni. Un amico mi disse che un concessionario aveva messo in piedi un concorso per scegliere un pilota da schierare in un monomarca Bultaco. Ma dovevo preparare un esame e non ne avevo molta voglia. Di esperienza ne avevo poca. Alla fine ci provai, eravamo in 150. Vinsi la selezione e poi il monomarca”.

A quel punto, senza perdere tempo, bussasti alla porta di Antonio Cobas, un preparatore sopraffino al lavoro su una 250 artigianale, la Siroko.

“Gli chiesi un’opportunità e lui me la diede. Nella pausa invernale andammo a fare un test al Paul Ricard, e c’erano tutti quelli del Mondiale, impegnati nella preparazione della stagione 1981: Jean-Francois Baldé, Patrick Fernandez e via dicendo. Feci il secondo crono senza problemi. Fu la conferma: c’era in ballo qualcosa di speciale”.

Sempre con Cobas, nel 1984, vincesti il tuo primo GP.

“Quel successo, proprio in Spagna, mi proiettò in vetta al Mondiale. Avrei dovuto correre con una Yamaha, ma la moto non era arrivata in tempo per il primo round della stagione. Allora in Sud Africa ci andammo con la Cobas dell’anno prima, che portava il nome del suo costruttore. Finimmo sul podio, poi arrivò la 250 dal Giappone, ma a Misano fu un grippaggio dietro l’altro, ogni turno, un disastro. Così decidemmo di scaricare la Yamaha e di proseguire con quello che avevamo. Chiusi la stagione al quarto posto”.

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I titoli mondiali, i passaggi nella 500


Nel 1985 ci fu un assaggio della 500 per poi fare ritorno in 250 con la Honda, sfiorando il titolo: il 1987 doveva essere l’anno giusto.

“Nel team c’era una novità: un ingegnere. Ma era un matto, sbagliava sempre la carburazione. Grippavo. Fosse successo in accelerazione, avrei sentito che stava per ‘stringere’ e avrei tirato la frizione. Ma in frenata non c’era niente da fare. Ruota bloccata e via per aria. Corsi anche con una mano fratturata, antidolorifici e tutto il resto. Quando mandammo via l’ingegnere iniziammo a recuperare. All’ultima gara, in Argentina, per arrivare secondo nel Mondiale dovevo vincere, mentre Reinhold Roth doveva arrivare sesto o peggio. Facemmo proprio questi risultati, e finimmo a pari punti”.

Poi arrivarono i due titoli, in una carriera da quattro pole e 15 vittorie: avevi bisogno di un riferimento per andare forte?

“Da solo non ero molto veloce. Ma mica era un difetto: in gara non sei solo. Essere primo in qualifica non era importante. In ogni caso, ho sempre avuto chiara una cosa: dovevo rischiare il minimo. Se potevo vincere con cinque decimi di vantaggio, perché provare a farlo con cinque secondi?”.

Nel 1990, il ritorno in 500 con la Honda, convinto di spaccare il mondo, ma ti mancarono le gomme giuste.

“Quelle erano soltanto per gli ufficiali dei team gestiti direttamente dalle fabbriche. A Suzuka, alla prima gara, lottai anche per il podio contro piloti che avevano i pneumatici giusti, non come i miei. A Laguna Seca feci il terzo tempo in qualifica. Chiesi quelle gomme, ma niente”.

A Rijeka, settima gara, ti eri messo in testa di stare con Mick Doohan, sulla Honda ufficiale, e cadesti. Pierfrancesco Chili ti centrò.

“Le mie gomme avevano meno grip, e che diamine. Mi feci male, sì. L’anno dopo in un’occasione mi ritrovai senza freni e finii in un muro. Che male. Ho avuto un figlio. Ho detto basta”.

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