La leggenda del Motomondiale in esclusiva: "Le corse sono state tutto per me, la mia vita, ciò che ero"
A Misano, quell’anno, hai subito l’incidente che ha messo fine alla tua carriera: hai anche ricordi belli di quel tracciato?
“I curvoni a sinistra in accelerazione fra la curva del Carro e il Tramonto, certo, quando Misano si percorreva in senso antiorario: erano i più belli dell’intero calendario. Tre, ma si affrontavano come un’unica grande svolta, infilando le marce senza tirarle al massimo e arrivando all’ultima curva in quinta, a quel punto con il regime dei giri oltre il punto di massima coppia. Così, se dietro slittava, sapevi che non avrebbe riservato sorprese, come invece sarebbe accaduto con l’arrivo di ancora più potenza”.
Aprire il gas con quelle moto era come accendere una miccia?
“La parte in assoluto più delicata era l’inizio dell’apertura, rispetto alla quale ero sempre molto concentrato: era il momento più rischioso. Si lavorava parecchio anche sulla carburazione, per evitare comportamenti troppo bruschi o imprevisti nell’erogazione. A Laguna Seca, per esempio, si usavano rapporti corti ed era difficile anche tenere la moto giù davanti. Tendeva a impennarsi molto. Anche gli high side erano facili. In un giro tenevamo il gas aperto del tutto per il 27% del tempo, mi pare. Con le MotoGP, e con l’elettronica a gestire le cose, mi hanno detto che quel tempo è salito al 67%”.
La tua Yamaha: la moto migliore del lotto?
“Dal mio punto di vista no. Il fatto è che non si lavorava abbastanza sullo sviluppo, rispetto agli avversari. La conseguenza è che alla fine chi doveva fare la differenza era il pilota, cioè io. E quel peso, sulle mie spalle, si faceva sentire eccome. Nel 1992 arrivai a giocarmi il titolo all’ultima gara senza più ricambi. Un pasticcio, potenzialmente, perché avevamo lavorato sull’ordine degli scoppi del nostro quattro cilindri e ciò comportava maggiori sollecitazioni per l’albero motore e il cambio. A volte qualche pezzo si rompeva e andava sostituito. Per fortuna andò bene”.
Un bel brivido.
“Da una parte, al rischio ero abituato da sempre, perché mio padre, già quando ero piccolo, mi aveva portato verso scelte controcorrente. Se tutti correvano con le Yamaha 90 cm³, noi ci compravamo una Suzuki. Se era la Honda ad andare per la maggiore, noi optavamo per una Bultaco. Abbiamo sempre fatto le cose a modo nostro, distinguendoci. Ci piaceva, quel genere di sfida: vincere con ciò che gli altri avevano scartato”.
Da professionista, però, immagino ci fossero più pressioni e maggiore stress.
“Dipende da come prendi le cose. Quando la mia carriera è finita, una parte di me ha pensato: finalmente! Le corse sono state tutto per me, la mia vita, ciò che ero. Se non avessi avuto l’incidente di Misano, nel 1993, penso che avrei continuato per almeno un paio d’anni. Ma il fatto è che volevo sempre vincere: secondo o terzo non mi interessava. E se non riuscivo a vincere, non mi davo pace. Probabilmente è stato un errore, perché occorre accettare il fatto di non poter finire sempre primi. Però, quando sei nel bel mezzo di una bagarre, nella tua bolla mentale, è difficile fare questi ragionamenti. A ogni modo, forse avrei dovuto essere un po’ meno radicale, per vivere meglio le corse. L’ho capito dopo aver smesso”.
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