Wayne Rainey: "Senza vittorie, non mi davo pace" | Storie Sprint

Wayne Rainey: "Senza vittorie, non mi davo pace" | Storie Sprint© Archivio Motosprint

La leggenda del Motomondiale in esclusiva: "Le corse sono state tutto per me, la mia vita, ciò che ero"

09.06.2023 ( Aggiornata il 09.06.2023 10:34 )

Il segreto che si è tenuto dentro per una notte intera, e anche di più, non l’ha confidato nemmeno a sua moglie. Ma a un certo punto, Wayne Rainey è costretto a parlare.

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Wayne Rainey a cuore aperto


È l’1 agosto, il giorno del Gran Premio di Donington, decima tappa su 14 del Mondiale 1993. Lo statunitense, campione del Mondo in carica della classe regina all’inseguimento del quarto iride consecutivo, ha un problema alla vista. Non ci vede bene per niente. Colpa del botto fatto il giorno prima, durante le prove del sabato, quando la sua Yamaha YZR 500 lo ha “consegnato” a terra. Una schiena dolorante e qualche unghia saltata via, fra le conseguenze. Ma soprattutto un gran colpo alla testa, il morso dell’asfalto ben visibile sul casco AGV.

L’americano ha pensato bene di non dire nulla a nessuno. Una commozione cerebrale: che vuoi che sia? La sera prima si è coricato convinto di svegliarsi, l’indomani, a posto. E invece, la vista fa ancora i capricci. Nel warm up è un paio di secondi più lento dei migliori. E così è costretto a confessare il segreto al suo capotecnico, che non ci pensa troppo prima di dirgli che in quelle condizioni non può guidare.

Ma il trentaduenne californiano non è uno che molla facilmente. Ci sono una battaglia da combattere e una guerra da vincere, per lui. Kevin Schwantz, in classifica, è davanti ma a tiro, pochi i punti a separarli: 192 per il texano della Suzuki, 169 per Rainey. Dal 1988, quando entrambi avevano iniziato a correre a tempo pieno nel Mondiale 500, erano sempre stati ai ferri corti. Biondi e affilati, americani e dotati: dalla California il numero 1 della categoria, dal Texas il pilota della Suzuki. Disposti a cedere un millimetro all’avversario? Mai, nemmeno nelle prove libere, figuriamoci in gara. È con questa motivazione addosso che Rainey si infila nel motorhome dopo il warm up e ragiona sul da farsi. Un’ora dopo torna nel box del team ufficiale Yamaha, tappezzato di loghi Marlboro, con un piano ben preciso.

Cosa decidesti di fare in quel momento?

“Qualcosa di decisamente folle, se ci penso adesso. Chiesi al mio capotecnico di sistemare i rapporti del cambio per consentirmi di partire in seconda marcia, anziché in prima. Il fatto è che con la vista non riuscivo a misurare la profondità, quindi a capire quanto distanti da me fossero gli altri piloti. Invece con le traiettorie ero a posto. Partendo davanti non avrei dovuto superare nessuno e avrei risolto il problema. Scattando in seconda pensavo di essere rapido perché avrei dovuto infilare una marcia in meno accelerando, e toglierne una in meno frenando per la prima curva. Ma non ci avevo mai provato: era un salto nel buio”.

Un passo indietro: i medici non ti fermarono.

“Non c’erano i protocolli di adesso. Non manifestai il problema e nessuno se ne accorse”.

Pronti via, cosa accadde?

“Scattai dalla seconda fila con un grande spunto. Alla prima curva avevo un solo avversario davanti (Alex Barros, nde), lui andò largo e io passai in testa. A quel punto era quasi fatta, perché su gomme fredde ero quasi imbattibile. Poi, dietro si verificò un incidente che coinvolse anche Mick Doohan e Kevin (l’australiano della Honda travolse entrambe le Suzuki di Schwantz e Barros alla staccata della variante, nde). Quindi in ottica iridata tutto volgeva a mio vantaggio. Il mio compagno di squadra, Luca Cadalora, mi seguì come un’ombra per tutta la gara. Io pensavo: forza, passami! Lo fece sul finire del GP e vinse, io fui secondo e contento”.

Andò bene, possiamo dire.

“Quella fu la prima volta, nella mia carriera, in cui gareggiai sapendo di non essere mentalmente a posto e non era una cosa sicura da fare. Fu un po’ da pazzi, lo ammetto. Francamente: non avrei dovuto correre, quel giorno”.

La vivesti come una cosa straordinaria, oppure normale?

“Negli anni avevo accumulato esperienza, avevo gareggiato al top e combattuto un sacco di battaglie, vincendo parecchie gare. Quell’episodio fu soltanto qualcosa in più nell’ambito di ciò che occorreva fare per vincere un titolo mondiale: ho un problema e lo affronto, questo fu il ragionamento. Tutto qui”.

La Storia Sprint di Wayne Rainey


Quel giorno a Donington chiudesti alle spalle del tuo compagno di squadra, una rarità per te.

“Ai miei tempi, nei test ogni team girava per conto suo, non si svolgevano sessioni con tutti i piloti insieme, come si fa oggi. Si provava parecchio materiale e dovevo essere certo di spingere al massimo. L’altro portacolori della squadra, quindi, era il mio unico metro di paragone. La mia strategia era quella di considerarlo a tutti gli effetti un rivale. In gara, poi, se finivo ottavo dovevo essere certo che lui, chiunque fosse, si classificasse nono. Con il tempo, però, il mio approccio è mutato: gli avversari sono diventati tutti uguali”.

Stare davanti per te era una gioia o un’ossessione?

“All’inizio della mia carriera volevo sempre essere primo. Non soltanto in gara, ma in ogni turno di prove. Era un modo per far capire agli altri che sarei stato tosto, da battere. Sapevo bene come ci si sentiva a essere dietro: se Eddie Lawson era un decimo più veloce di me, non la prendevo affatto bene e iniziavo a scervellarmi riflettendo su come recuperare. Pensando a questo, volevo mettere gli altri in quella particolare condizione. Più avanti ho capito che quello che conta è il risultato della domenica. Lavoravo in quella direzione, dando meno importanza alle prove e alle qualifiche”.

Com’era il processo di messa a punto?

“Posso dire tranquillamente che ci è capitato di essere nella m…. fino al collo il sabato sera, stravolgere la moto e provare qualcosa di nuovo per il warm up per poi doverla di nuovo smontare tutta perché le cose non funzionavano come avrebbero dovuto. Poi ci presentavamo in gara con un ulteriore setting, mai provato prima, e finivamo magari per vincere! Non succedeva spesso, ma un paio di volte l’anno sì. Ai giapponesi della Yamaha non piaceva affatto vedere il motore aperto e le sospensioni a pezzi a poche ore dal via. Ma avevo un’ottima squadra: avevano tanta fiducia in me. E io ne avevo in loro”.

Sei mai stato felice per un piazzamento più che per una vittoria?

“È tutto relativo. Vinsi la mia ultima gara in Repubblica Ceca, nel 1993 a Brno, la corsa che seguì quella di Donington: trionfai con facilità, dando il 90% e non il 100%. Non mi fece sentire del tutto appagato: a me piaceva dover lottare. Sempre quell’anno, in Austria finii terzo con un grandissimo ultimo giro: avevo parecchi metri di ritardo da Barros. Lui commise qualche errore e io riuscii a raggiungerlo, infilarlo e salire sul podio. Ero raggiante”.

Correvate a Salisburgo: in uscita dalla prima “esse” a volte prendevi il cordolo e saltavi, con la YZR imbizzarrita: da vedere era parecchio spettacolare.

“Ma non era la cosa più intelligente da fare: quando salti con una moto da GP rischi che la catena si spezzi oppure puoi provocare altri danni. Un paio di volte persi anche l’appoggio del piede dalla pedana. Però era divertente”.

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