Yamaha Mondiale: Wayne Rainey, numero uno fino alla fine

Yamaha Mondiale: Wayne Rainey, numero uno fino alla fine© GpAgency

L'allievo di Roberts vinse tre titoli mondiali 500 con la Casa di Iwata e il quarto era a un passo, ma la sua carriera terminò con il terribile incidente di Misano

23.02.2022 ( Aggiornata il 23.02.2022 21:27 )

Salendo la scala dell’aereo che lo avrebbe portato da Los Angeles a Londra, Wayne Rainey sapeva benissimo come quel viaggio dalla California all’Europa sarebbe stato l’ultimo concessogli da Kenny Roberts.

Tra i due connazionali vigevano stima e rispetto, ma al Marziano non era affatto piaciuto il rendimento offerto dal più giovane nella stagione iridata 1984 spesa assieme in 250, classe intermedia dei Gran Premi in cui l’allora ventitreenne pilota del Team Marlboro Yamaha collezionò un solo podio, con il terzo posto colto a Misano Adriatico.

La delusione reciproca fu enorme, perlopiù palesata da Roberts, che rispedì a casa l’allievo. Ma dato che proprio Kenny ne conosceva meglio di tutti le doti, fu per mano sua che avvenne la richiamata alle armi. Ecco perché Wayne, a fine 1987, stava decollando verso un’occasione assolutamente da cogliere... al volo.

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La scelta di King Kenny


In quella seconda chance, come si può evincere, responsabilità e aspettative raddoppiarono. Esattamente come la cubatura e il numero di cilindri montati sulla YZR 500 quattro cilindri. Perché King Kenny puntò nuovamente su Rainey? Il vivaio, anzi, l’allevamento di giovani corridori creato nel ranch di Modesto vantava “pony” pronti a rivelarsi come purosangue. C’era giusto l’imbarazzo della scelta: “Lo so, ma penso che Wayne sia la scelta migliore. Si è allenato duramente, ha guidato motociclette di grossa cilindrata, potenti e selettive. Adesso è il momento di portarlo nella classe regina”. La spiegazione del manager lasciò immediatamente spazio ai riscontri della pista.

Tornato nel Vecchio Continente a 27 anni appena compiuti, il debuttante di categoria non ebbe nemmeno il tempo di riambientarsi. Immediatamente test, prove, collaudi. Lavoro. Le esigenze imposte dalla mezzo litro e la lista di grandi avversari non lasciavano tempo ai giochi: "Cominciammo prestissimo a girare" ha ricordato più volte Wayne. “Perché io dovevo capire la moto e come farla andare. Gettarsi nella mischia senza riferimenti si sarebbe rivelata vera follia”. I giornalisti definirono “folle” la scommessa di Roberts. Perché, per sostituire un Randy Mamola ingolosito dai miliardi Cagiva, non prendere un pilota già esperto, togliendolo a Honda o Suzuki? Magari Wayne Gardner. Niente affatto: “Il nostro Wayne lo abbiamo nel garage” precisò Roberts. “Perciò sarà lui a vincere il titolo”. Presosi del pazzo (e non era la prima volta), King Kenny si mise in testa il berretto Lucky Strike, sponsor che appoggiava la squadra più ambiziosa del paddock, desiderosa di meritarsi la fiducia riposta dalla Phillip Morris, budget costituito da sonanti dollari incluso.

Tre mondiali


Il concetto che fondava il progetto prevedeva – e auspicava – almeno un successo di tappa nel primo campionato, il 1988. Missione compiuta da Rainey, a Donington, con tanto di sei podi aggiuntivi. L’anno dopo, le tre vittorie regalarono il secondo posto finale: “Cioè, il primo dei perdenti” la massima epocale di Kenny, a intimare il definitivo salto di qualità, compiuto nel 1990. Con le gomme Michelin e un nuovo sponsor tabaccaio (Marlboro) a testimoniare lo status di team ufficiale Yamaha, il numero 2 riusciva a far derapare a suo piacimento la ruota posteriore. Rainey fu pressoché l’unico top rider a rimanere lontano dagli infortuni, e mise assieme sette primi posti, cinque secondi e due terzi. Elencato così, il rendimento del duo biancorosso americano (Rainey-Roberts) sembrerebbe un menu, in realtà parliamo del piatto ricco condiviso, per bocconi amari ingoiati dalla concorrenza. La Yamaha tornò in vetta al Motomondiale, King Kenny fece doppietta grazie a John Kocinski, affermatosi nella quarto di litro.

Quel doppio alloro fu foriero di ulteriori affermazioni. Tra le stagioni 1991 e 1992, Rainey si confermò campione con nove vittorie di tappa, garantendo una continuità sconosciuta a tutti. E dire che l’avanti-indietro tra gomme Dunlop-Michelin avrebbe potuto mettere in crisi il californiano. In realtà le Dunlop, ritenute dai più davvero estreme e meno sicure, addirittura esaltarono lo stile da cowboy, affinato in ore di allenamento nel Dirt Track: “Soltanto così è possibile portare al vero limite la 500. Ci provano in tanti e diversamente, ma è impossibile. Wayne ha compreso quanto sia importante instaurare pieno feeling tra polso destro, fondoschiena, pneumatici e testa. Sì, lui è forte anche di testa” disse Roberts. Vero, altrimenti nel ‘92 non sarebbe rimasto all’interno di un campionato che sembrava di Mick Doohan, facendosi trovare pronto per sfruttare l’occasione data dal gravissimo incidente dell’australiano ad Assen.

Tre titoli furono molto più che sufficienti per trasformare Rainey in una scommessa vinta. Gli scettici abbassarono lo sguardo di fronte ai successi di un pilota mite, pacato nei modi e scatenato in sella. E lo fecero in pista Doohan, Eddie Lawson, gli stessi Kocinski e Kevin Schwantz, spesso sconfitti.

Misano, inizio e fine


Ma Rainey stava per andare incontro a un incredibile destino. Proprio dove ottenne il primo podio iridato, il numero 1 del Motomondiale uscì di scena nel peggiore dei modi. Il tre volte campione stava comandando il GP Italia 1993, con il compagno Luca Cadalora a coprirgli le spalle. Vincendo, Rainey avrebbe ipotecato il quarto titolo. E invece un colpo di gas, forse troppo lesto e deciso. Un colpo sui cordoli – di quella che ai tempi era la prima curva del Santamonica e oggi è l’ultima del Marco Simoncelli – sicuramente esagerato e determinante. Wayne non si rialzò più, perlomeno fisicamente.

Il Re della 500 e simbolo della Casa di Iwata lasciò malamente le competizioni professionistiche, volando in elicottero verso l’ospedale più vicino. Due viaggi nel cielo contraddistinsero la prestigiosa carriera dell’americano, da casa al Mondiale, dal tetto del Mondo alle proprie radici. Per tutto l’ambiente e per il motociclismo internazionale fu una pesante perdita, in particolar modo ne risentì Kenny Roberts, mai più titolato da allora. Anche la Yamaha ebbe bisogno di tempo, un decennio, per riprendersi e riorganizzarsi, non prima dell’avvento di Valentino Rossi, il quale riportò i tre diapason al vertice della top class, divenuta MotoGP a quattro tempi. Un degno successore di Rainey, che anche dopo aver perso l’uso delle gambe è tornato in moto, commuovendo il Mondo a fine 2019. Ma anche senza guidare, Wayne ha saputo lasciare la firma, ridestando il vivaio USA alla guida del MotoAmerica. Perché la classe non è acqua.

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