Ritorno al Futuro, 1990: Wayne Rainey, il figlio del re

Ritorno al Futuro, 1990: Wayne Rainey, il figlio del re© Milagro

Biondo, californiano, vincitore di tre titoli consecutivi sulla Yamaha 500: non è Roberts, ma il suo erede, Rainey, che trent'anni fa entrava nella leggenda

10.07.2020 ( Aggiornata il 10.07.2020 18:24 )

Dieci anni dopo l’ultimo successo di Kenny Roberts è stato un altro americano, Wayne Wesley Rainey, a vincere la classe 500. Cioè la più iconica, meravigliosa, stupefacente categoria che ogni appassionato di motociclismo che ha potuto vivere anche quell’epoca ricordi. A metà tra Roberts e Rainey, altri piloti a stelle e strisce avevano dominato la scena, Freddie Spencer e Eddie Lawson, vincendo rispettivamente due e quattro titoli della top class, dove quello americano era un autentico impero, arricchito anche dai numeri di Randy Mamola e Kevin Schwantz.

Era il 1990 e il ventinovenne Rainey viveva la terza stagione nella classe regina, la quarta nel Mondiale dopo aver disputato la 250, nel 1984, senza lasciare il segno. Un terzo posto era stato il miglior risultato di quell’anno di apprendistato, e il biglietto di ritorno in America, nell’AMA, fu timbrato con la ramanzina di Kenny Roberts, al debutto come team manager: "Rainey non è pronto. Questo è il Motomondiale, non l’AMA. Qui corrono i migliori piloti del mondo e credo sia meglio rispedirlo in California". Detto, fatto. Un ritorno in patria così utile che tre anni più tardi, proprio Roberts avrebbe richiamato Rainey per il Mondiale. Considerandolo pronto per la classe mostruosa. Nel 1988 arrivò subito un successo, il primo nel Mondiale, a Donington, l’anno dopo Wayne salì sul podio tredici volte in 14 gare - ma l’unico “zero”, ad Anderstorp, fu fatale nella corsa al titolo - e dal terzo anno il californiano non ha più smesso di vincere fino a quando il destino si è messo di traverso, ponendo fine alla sua carriera motociclistica nel GP di Misano del 1993.

Il 1990 è stato il suo anno. Quello di Roberts era un dream team con Rainey da una parte e il campione in carica Eddie Lawson dall’altra, ma il quattro volte iridato uscì subito dai giochi. Primo Gran Premio, in Giappone, sulla spettacolare e difficile Suzuka: Rainey trionfò in solitario come suo stile - celebre il ritmo infernale che imprimeva nei primi giri, quando partiva al comando e faceva selezione - lanciando il leit motiv dell’annata, mentre Lawson cadde trascinato a terra da Mick Doohan, rimediando un primo infortunio.

Secondo GP, ed ecco l’incidente che gli fece dare l’addio ai sogni di gloria: a Laguna Seca, un errato fissaggio delle pastiglie dei freni anteriori lasciò Eddie senza freni. Nella caduta, la rottura del tallone costrinse il californiano a due mesi di stop. Durante i quali Rainey allungò le mani sul campionato, vincendo anche a Laguna Seca, la pista che oggi vede da casa sua e dove gli è stata intitolata una curva. Il duello qui fu con Kevin Schwantz, che provò a resistergli ma cadde, infortunandosi al polso sinistro. Due vittorie su due gare per Rainey, pilota sportivo, leale, corretto, il biondino dal tono pacato che rappresentava, ora sì, il peggior incubo per gli avversari. E come avrebbe fatto Marc Marquez nel 2019, anche il Rainey del 1990 chiuse l’anno salendo sul podio in ogni GP portato a termine, con un solo “zero”, rimediato in Ungheria, a Mondiale vinto.

La differenza tra Marc e Rainey sta nella moto: le 500 venivano paragonate a cavalli imbizzarriti e no, non perdonavano. Ai “cavalieri” serviva la giusta dose di follia e di coraggio. Basti pensare che gli unici piloti a non incappare in infortuni pesanti quell’anno furono soltanto Rainey e Doohan (proprio loro che successivamente avrebbero pagato un conto salatissimo) mentre Schwantz, seppur acciaccato, riuscì a non saltare nessun GP. Tutti gli altri - Lawson, Gardner, Chili, Sarron, Mamola, Pons, Haslam per non parlare di Kevin Magee che rischiò la vita a Laguna Seca - saltarono gare, con griglie di partenza ridotte ben sotto le 20 unità. All’epoca restava in piedi soltanto il più bravo e il californiano con la sua guida pulita, precisa, elegante e la sua capacità di guidare “sui” problemi fu il campione indiscusso.

La terza gara andò in scena a Jerez: dopo aver dominato 18 dei 29 giri, Rainey subì un sorpasso in staccata dal suo omonimo australiano, Gardner, portando a casa un secondo posto ugualmente importante. Il ventinovenne tornò poi alla vittoria a Misano con una prova di forza in una gara iniziata asciutta e conclusa in condizioni insidiose, dopo esser partito dalla pole position. Dalla sua qui aveva il grande numero di curve a sinistra, l’ideale per chi si è sempre allenato nel Dirt Track. Proprio in quella disciplina imparò a guidare mettendoci del proprio per ovviare alle lacune dell’assetto e delle gomme, derapando anche senza avere quella sensazione di fiducia desiderata. Tutto questo, rendeva Rainey - magari non spettacolare come Schwantz, ma coraggioso e tremendamente efficace - un vero animale da gara. Dall’Italia, il Circus si spostò poi in Germania, al Nürburgring, dove nelle libere Gardner cadde e rimediò nove fratture al piede destro. Lasciando così campo libero soltanto a Rainey e Schwantz nella corsa al titolo, una rivalità divampata già anni prima, da “compagni” nella selezione americana al Transatlantic Trophy, quando i migliori piloti AMA venivano a fare capolino in Europa.

Una rivalità che sarebbe proseguita fino al ’93, con duelli mozzafiato. In terra tedesca fu il texano a trionfare, con Rainey limitato da una lussazione al mignolo della mano sinistra rimediata in prova, un infortunio da niente considerando cosa accadeva agli altri piloti della 500 di quell’anno. Rainey raccolse poi un secondo posto anche in Austria, sempre alle spalle di Schwantz dopo un duello acceso per tutti i 29 giri di una gara tiratissima, a 192 km/h di media. Il terzo? Un “certo” Doohan, poi cinque volte iridato, che sulla Honda NSR rimediò 25 secondi...

Rainey tornò alla vittoria la settimana successiva a Rijeka, nello storico ultimo GP Jugoslavia, dominando. In Olanda, tornarono a lottare anche Lawson e Gardner, ma fu Schwantz a calcare il gradino più alto del podio, inseguito da Rainey. Al nono GP stagionale arrivò il crollo di Schwantz, che sotto la pioggia di Spa-Francorchamps non riuscì a far valere le doti di funambolo: fu settimo, staccatissimo da Rainey. Teatro del decimo GP fu Le Mans, dove Schwantz tornò alla ribalta con una rimonta clamorosa dalla settima casella. Rainey non poté fare altro che inchinarsi al suo strapotere, terzo sotto la bandiera a scacchi alle spalle anche di Gardner. E anche la gara britannica portò la firma del pilota Suzuki, che non aveva alcuna intenzione di mollare la presa del sogno iridato: con questo quinto successo pareggiò il numero di vittorie di Rainey. Ma la differenza la fece la continuità: quando le cose non giravano per il verso giusto, Schwantz non limitava i danniRainey si rifece in Svezia, nel dodicesimo appuntamento, ipotecando il titolo iridato (+47 punti), in una gara che senza colpi di scena sarebbe stata favorevole a Honda e Suzuki. Invece Schwantz cadde dopo due giri. Ad aiutare Rainey fu Lawson, che fece da guardaspalle del compagno, difendendolo da un possibile ritorno di Gardner.

Brno fu il teatro della festa di Rainey che non si accontentò di arrivare al traguardo, come gli sarebbe bastato dopo la caduta di Schwantz: Wayne decise di laurearsi campione del Mondo da vincitore del GP. Il ragazzo preciso e posato, non un personaggio da grande audience, perse finalmente la sua compostezza dopo la bandiera a scacchi e festeggiò come meritava il suo ingresso nell’albo d’oro del motociclismo: "Che liberazione! L’ultimo giro mi ha regalato sensazioni indescrivibili. E sul traguardo, poi, con tutta la squadra in piedi sul muretto, mi sono commosso fino alle lacrime" commentò a caldo. "Portarmi nella classe regina è stata una scommessa nella quale credevano soltanto due persone: io e Kenny Roberts Sono davvero felice di averlo ripagato".

La sua tattica è sempre stata chiara: "Pensare sempre a vincere è stata la mia arma migliore in questo campionato e non ho voluto cambiare strategia. Se fossi caduto inseguendo un piazzamento sufficiente a darmi la matematica certezza del successo non me lo sarei mai perdonato". Il pensiero sottolinea quella purezza d’animo e quell’umiltà che lo contraddistinguevano: "Lo dedico a Mike Sinclair (il capomeccanico, ndr) e a tutti i ragazzi della squadra, senza di loro non ce l’avrei mai fatta". Ragazzi con i quali avrebbe festeggiato anche nel 1991, dopo un’altra annata sempre in vetta, e nel 1992, dopo l’incredibile rimonta ai danni di Doohan.

Eguagliato il tris del mentore Roberts, per Wayne il poker sembrava vicino, ma a Misano la sua strada si interruppe. E quel giorno, l’epilogo della carriera di Rainey coincise con l’inizio della fine del predominio - nei risultati e nel dettare il modo di guidare - dei piloti statunitensi.

Wayne Rainey, il doppio ritorno

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