TT: Mark Purslow, l'ultimo dei caduti inseguendo un sogno

TT: Mark Purslow, l'ultimo dei caduti inseguendo un sogno© Mark Purslow

Con la morte del britannico sono salite a 261 le vittime del Tourist Trophy. Pazzi o eroi? Solo persone che hanno dato tutto per la loro passione

03.06.2022 21:22

Morte e motori, due mondi che si vorrebbero distanti, ma che in realtà sono fin troppo vicini. Due binari che viaggiano paralleli, per incontrarsi di tanto in tanto, in quelle giornate tinte di nero che nessuno vorrebbe mai vivere.

Era il 03 giugno di sei anni fa, quando Luis Salom ci lasciava in un incidente nelle Libere 2 del Gran Premio della Catalunya. Era il 03 giugno di tre anni fa quando sull'Isola di Man moriva Daley Mathison, rimasto vittima di un incidente a tre giri dalla partenza della gara SBK, di un Tourist Trophy che solo pochi giorni fa ha pianto un'altra vittima, con la tragica scomparsa di Mark Purslow.

"Motorsport is dangerous" ricordano sempre da quelle parti perché, per quanto la sicurezza possa fare passi da gigante, il rischio non potrà mai essere pari a zero. E chi corre - soprattutto su strada - lo sa, che la Signora in Nero è sempre lì a guardare, in attesa del giorno in cui smetterà di essere una silenziosa compagna di viaggio, per tendere la mano a colui che ha scelto di portare via con sé. Per portarlo ad aggiungersi a quella lunga lista di coraggiosi, che non si sono mai più alzati.

Un rischio calcolato, seppur a malincuore


261 nomi nel solo Tourist Trophy. Tante sono le vite che si sono spezzate sull'Isola di Man, ma ancora di più i motociclisti che, nel corso degli anni, hanno messo in conto di non tornare. Perché, che piaccia o meno, chi sceglie di correre è ben conscio della possibilità di non riabbracciare più i suoi cari. Famiglie che sanno bene i rischi a cui tutti i motociclisti vanno incontro e che, alla fine, scelgono di accettarli. Vuoi per amore, per rispetto, o forse anche solo per rassegnazione. 

Un legame con il lutto difficile da comprendere per chi lo vive dall'esterno e non riesce a capacitarsi di come un uomo possa dare tutto, anche la vita, in nome di uno sport; di un brivido o una scarica di adrenalina. Di come, perso un amico o un rivale, si possano esorcizzare la paura e il dolore chiudendo la visiera e andando avanti, come si è sempre fatto. Nel ricordo e nel rispetto di chi, pur di correre, ormai non c'è più.

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Persone che, in sella, hanno perso la propria partita contro la morte


Figli, nipoti, padri e fratelli: persone come tante altre, accomunate da una sola e unica grande passione, più forte di ogni altra cosa. Perché quello che emerge, e deve emergere, davanti a queste tragiche fatalità è proprio l'umanità di chi se n'è andato e di chi è rimasto, che nella compostezza del suo dolore sa che, nella maggior parte dei casi, non ci sono colpe o colpevoli da cercare, ma soltanto persone da ricordare con un sorriso.

Vite da celebrare tra una lacrima e un'altra. Quelle di un padre; un amico; o un fratello; che in sella ha perso la sua partita contro la morte. Perché comunque la si voglia vedere, alla fine, la realtà è che quei 261 nomi non vanno assurti al rango di eroi, ma nemmeno stigmatizzati. Vanno soltanto ricordati per essere caduti facendo ciò che solo pochi di noi hanno il coraggio di fare: portare avanti i propri sogni, a ogni costo.

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