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Franco Uncini, un campione controcorrente

© GpAgency

Oltre alla gioia di aver vinto il titolo mondiale della 500, in quel 1982 Franco Uncini provò un senso di rivalsa nei confronti di qualcuno che ne stava condividendo il successo appena ottenuto. Qualcuno che però in un primo momento era risultato severo e persino ingeneroso. No, non si parla del Team Gallina, i cui uomini non avevano mai dubitato - Franco aveva il talento e il potenziale per battere avversari come Freddie Spencer, Randy Mamola, il precedessore nel team e nell’albo d’oro Marco Lucchinelli, Kenny Roberts, Barry Sheene e Graeme Crosby – ma qualche dirigente Suzuki non mostrò altrettanta sicurezza.

La storia della Suzuki, tra tradizione e famiglia

La rivincita


Stando ai commenti dell’epoca, si disse che qualcuno all’interno della Casa di Hamamatsu avesse sostenuto come l’esile pilota marchigiano fosse troppo magrolino, eccessivamente debole e piccolo. Quindi non meritevole di una moto ufficiale, perché non sarebbe stato in grado di condurla al limite delle sue capacità. Invece, con cinque affermazioni di tappa in quella stagione trionfale (tutti i suoi successi in 500 furono racchiusi in quell’anno), il ventisettenne marchigiano zittì i detrattori interni ed esterni al suo entourage, ricordando quanto egli stesso anticipò tempo addietro: “Spiegai a tutti che, dal mio punto di vista, la moto andava guidata e non spezzata in due – racconta Uncini, oggi Responsabile della sicurezza nei Gran Premi per conto della FIM – ecco perché desiderai con fermezza una sistemazione da corridore ufficiale, quello che oggi chiamiamo factory rider. La mia squadra godeva di un appoggio diretto dalla Suzuki e il salto di qualità fu per me possibile. Rispetto agli americani, abituati a guidare di forza, irruenti e decisi con il gas e con grandi derapate, io preferivo muovermi in sella fluido, armonioso, gentile. Dimostrai di avere ragione”.

Una parte del merito, Uncini l’ha sempre diviso con i suoi uomini di fiducia. All’epoca non esistevano sistemi GPS, telemetrie, calcoli fatti al computer ed elettronica assortita. Ma Franco poté contare sull’appoggio di un proprio tecnico: “Io avevo un mio meccanico personale – spiega, facendo riferimento al fido e capacissimo Mario Ciamberlini – che mi seguiva nel migliore dei modi possibili. Io e lui condividemmo il concetto di guidabilità soave e di notevole maneggevolezza. Infatti, la mia RG 500 funzionava alla grande e io trovai la chiave perfetta per poterla sfruttare. Assieme ai ragazzi dello staff, approntammo un assetto che prediligesse la fase di staccata, fluida, e la prima parte di inserimento in curva. Arrivammo a garantire un equilibrio totale alla nostra Suzuki, nel quale io riuscivo a sentire perfettamente le reazioni e il comportamento della ruota anteriore.

Le potentissime Honda e Yamaha acceleravamo prima e meglio della quattro cilindri azzurra del Team Gallina, ma Uncini era capace poi di recuperare quanto perduto nei rettifili più lunghi: “In alcune piste, soffrivamo in accelerazione e perdevamo metri dalle moto rivali. Tuttavia, a centro curva eravamo veloci quanto gli altri piloti, se non di più. Dato che non mi sentivo molto forte in partenza (che ai tempi era ancora a spinta, nde), momento in cui tribolavo e concedevo posizioni agli avversari, sapevo però che sarei stato in grado di recuperare il tempo perduto da metà gara in avanti. Ovviamente, il mio vantaggio era quello di non stressare le gomme e, quindi, torno al concetto già esposto: piegavo e non spezzavo la mia Suzuki, perciò potevo contare su coperture ancora piuttosto buone negli ultimi giri di gara. Non fu per tutti così, alcuni piloti finivano i pneumatici dopo pochi chilometri, mandando in fumo possibili affermazioni o podi.

Vincere un campionato del Mondo è già fantastico di suo, farlo nella selettiva e terrificante 500 GP è addirittura esagerato. Specialmente se l’impresa viene realizzata sconfiggendo miti del Motomondiale come Spencer e Roberts, oltre a Barry Sheene. Franco ricevette il testimone dell’amico-rivale Lucchinelli: Come Lucky, io conquistati il titolo con la Suzuki del Team Gallina e con lo stesso numero di vittorie, cinque (nel caso di Franco furono a Salisburgo, Misano, Assen, Rijeka e Silverstone, nde). A ripensarci bene, sembrano destini incrociati. Incredibile. Io e lui eravamo gli italiani più forti del momento, la RG 500 era una moto che, una volta compresa, si rivelava parecchio competitiva. Dopo il titolo del 1981 Marco partì per altri lidi, io, invece, sono rimasto con la Suzuki sino alla fine della mia carriera di pilota. Ci tenevo a questa fedeltà”.

L'incidente in Olanda


Lucchinelli portò in dote alla Honda il numero 1 e l’esperienza – pur vantaggiosa a livello economico - non si rivelò molto proficua per lo spezzino, arrivato quasi a pentirsi della scelta. Uncini, invece, sfoggiò la tabella del primo in classifica dell’anno precedente in un 1983 non troppo generoso di soddisfazioni e, addirittura, quasi tragico per il portacolori del team Gallina. Il terribile incidente rimediato dal campione in carica ad Assen appartiene a un giorno che andrebbe cancellato, se non fosse che, oggi, il protagonista della brutta vicenda lo può raccontare pubblicamente: “Ovviamente, quella era una epoca con standard di sicurezza non paragonabili a quelli attuali – Franco racconta quanto accadde in Olanda – tanti amici e piloti riportarono pesanti conseguenze dalle cadute o dai colpi contro le barriere. A me andò diversamente. Dopo essere finito a terra, nel tentativo di uscire dal nastro di asfalto, venni centrato dalla moto di Wayne Gardner in piena corsa. Proprio sul casco. Questo è ciò che mi hanno raccontato, perché io non ricordo nulla, essendo rimasto in coma per diversi giorni. Ho rivisto le immagini e, devo ammetterlo, la botta fu tremenda ma forse più spettacolare che altro. Sono stato parecchio fortunato, Avevo lividi dappertutto, ma ero ancora vivo”. La dinamica, andata in onda TV e poi vista e rivista, mostrò il campione del Mondo disarcionato in uscita da una curva lenta. La sua Suzuki lo sbalzò di sella, lui picchiò sull’asfalto e poi venne centrato in pieno dalla Honda dell’australiano, e Uncini perse il casco.

La guida di Uncini evidenziò una grande differenza da quella esibita in sella alla RG 500 1982, gestibile e delicata, rispetto alla moto del 1983, scorbutica e violenta: “Questo perché nella stagione vincente apportammo piccole e ben pensate modifiche alla nostra Suzuki – ecco il dettaglio che fa la differenza - seguendo una logica di passi ponderati e uno vicino all’altro. Diversamente, l’anno successivo accadde una cosa che non tutti sanno: la Yamaha ingaggiò il nostro collaudatore di riferimento che, ironia della sorte, si chiamava Kawasaki... In pratica, il giapponese lasciò Suzuki, per andare in Yamaha, con un cognome di una terza Casa rivale (ride). Però, il suo passaggio non si rivelò molto divertente, per noi. I suggerimenti del veloce e sensibile Kawasaki vennero a mancare e lo sviluppo ne risentì. La RG 500 1983, totalmente inedita, era un vero disastro. Chiesi agli ingegneri nipponici di tornare a correre con il modello precedente, ma loro non vollero, perché non tornammo indietro mai. Proprio mai”.

Dopo essersi ripreso con relativa rapidità dalla botta del TT al Van Drenthe, Franco Uncini disputò due stagioni complete della mezzo litro, sempre in sella a una Suzuki da GP. Seppur veloce, il marchigiano non riuscì a ribadire le prestazioni offerte nei campionati precedenti, inclusi gli anni in cui si presentò al via con una RG 500 privata e un team da lui allestito (quando venne soprannominato “il privato più veloce del Mondo”). Le vittorie e i podi colti sino al glorioso 1982 sembravano, per gli addetti ai lavori, appartenenti a una storia diversa, che narra i vincitori italiani della mezzo litro affermarsi e poi calare. Contrariamente a Giacomo Agostini tanti anni or sono, o a Valentino Rossi, capace di centrare cinque titoli consecutivi nella top class del Motomondiale.

Il marchigiano, comunque, è stato il penultimo campione del Mondo nostrano della 500, il terzultimo per la Casa di Hamamatsu: dopo di lui sarebbero arrivati Kevin Schwantz nel 1993 e Kenny Roberts Junior nel 2000. La Suzuki, azienda che non conta numeri di produzione e attività paragonabili alle connazionali Honda, Kawasaki e Yamaha, vanta però un senso di gratitudine e offre continue onorificenze per coloro che ne hanno rappresentato il Marchio in pista e nel paddock. Franco Uncini ha fatto parte della famiglia Suzuki, compagine che annovera campioni diversi tra loro, con caratteristiche in comune: l’attaccamento alla maglia e ai colori sociali. Lui, che ha corso sette stagioni in 500 tutte con la Suzuki, ha i titoli per essere considerato una bandiera.

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